John Wick 4 tenta disperatamente di farci provare qualcosa

John Wick 4 tenta disperatamente di farci provare qualcosa

Di Lorenzo Pedrazzi

«Siamo la MTV Generation» dicono Bart e Lisa in una puntata dei Simpson, quando Homer sta per condividere la notizia del suo triplo bypass coronarico. «Niente di quello che dici può turbarci. Non sentiamo né gli alti né i bassi». Ecco, se il sovraccarico di stimoli visivi e sonori ha desensibilizzato intere generazioni, John Wick 4 sembra un goffo tentativo per disinnescare quell’apatia, secondo la logica tutta hollywoodiana del “go bigger” (and longer, potremmo aggiungere). È la legge del cinema delle attrazioni: un meccanismo sempre obbligato a superare sé stesso, in un disperato gioco al rilancio per elemosinare l’interesse del pubblico.

Il caso di John Wick è emblematico perché la saga prende piede da un film relativamente piccolo, il cui successo ha spinto Lionsgate e Summit Entertainment a gonfiarne a dismisura le premesse. Certo, l’idea di un sottomondo criminale con le sue regole esisteva già nel primo capitolo, ma i sequel lo hanno espanso per raggiungere dimensioni da blockbuster. Il terzo film riusciva però a centrare il giusto equilibrio tra storia individuale e world building, mentre John Wick 4 perde completamente il senso della misura: nelle sue 2 ore e 49 minuti, piene di botti e botte assordanti, finiamo quasi per dimenticarci quale sia lo scopo del nostro eroe. In effetti, per cosa combatte il letale ex sicario? Ottenuta la vendetta dopo la morte del cagnolino – ovvero il ricordo/feticcio della moglie defunta – John cerca la libertà dalla Tavola Alta, sindacato che governa tutte le organizzazioni criminali del mondo, ma sembra ormai procedere per inerzia, guidato più dagli istinti che dalla ragione. C’è un nuovo avversario che gli dà la caccia, il Marchese de Gramont (Bill Skarsgård), incaricato dalla Tavola Alta di trovarlo e ucciderlo: a tal fine, ingaggia l’abilissimo killer non vedente Caine (Donnie Yen), amico di John, ma la taglia sulla sua testa fa gola anche a moltissimi altri.

È chiaro che il suddetto world building sopravanza qualunque altra esigenza, trama e logica comprese. Intendiamoci, anche il terzo film si era piegato alle regole del tentpole, ma John Wick 4 sembra preoccuparsi più di introdurre eventuali spin-off che di raccontare una storia: personaggi come Akira (Rina Sawayama), il Signor Nessuno (Shamier Anderson) e lo stesso Caine sono lì per quello. Si avverte un’eccessiva parcellizzazione del racconto, più vicino alle logiche dei videogiochi che della narrazione cinematografica. I nuovi sceneggiatori Shay Hatten e Michael Finch costruiscono un’avventura piena di sottomissioni e “miniboss” che diluiscono l’intreccio, dove la netta scissione tra momenti dialogici e d’azione – con tanto di musica che cambia quando compaiono i nemici – ricorda proprio l’intrattenimento videoludico. Un’evoluzione, questa, definitivamente sancita dal piano sequenza in visuale isometrica: come se il regista Chad Stahelski decidesse di scoprire le carte e rivelare la finzione del gioco, attraverso le scenografie. Gli stessi avversari sono individui senza volto che arrivano a frotte incalcolabili, e John li elimina dal primo all’ultimo come in uno sparatutto, peraltro con una barra dell’energia virtualmente infinita.

John Wick 4 celebra così il passaggio della saga a una specie di universo parallelo, tutto locali notturni e luci al neon, luoghi iconici sempre vuoti e il sole all’orizzonte. Non esiste la quotidianità in questo mondo: i criminali sono liberi di fare ciò che vogliono, le istituzioni non sono pervenute (per quanto tempo ci si può ammazzare sotto l’Arco di Trionfo senza che intervenga la polizia?), e la luce è sempre crepuscolare, albeggiante o artificiale. La rule of cool domina ovunque. Vediamo personaggi che sparano sentenze “filosofiche” in risposta a semplici domande, o gente vestita fichissima che continua a ballare anche quando Scott Adkins – lui davvero spassoso, niente da dire – mulina calci volanti con la fat suit. È curioso poi come il film cerchi progenitori illustri (la partita a carte di Casino Royale, il guerriero cieco di Zatoichi, il duello all’alba di Barry Lindon…), ma si fermi sulla superficie delle cose: anche escludendo l’esistenzialismo spiccio delle battute, infatti, i riferimenti culturali sono sempre banalissimi. Se i personaggi vanno al Louvre, ad esempio, i dipinti che compaiono sono quelli più riconoscibili, ovvero La zattera della Medusa e La libertà che guida il popolo. Se vanno al balletto, sul palco ci sono le prove de Il lago dei cigni. Se declamano un passo dall’Inferno di Dante, ovviamente si tratta dell’incipit. E così via.

Questi ingenui tentativi di legittimazione fanno sorridere, ma il vero problema è che l’ansia di sfondare il muro dell’apatia conduce il film sulla strada del parossismo, con eccessi involontariamente comici nell’ultimo atto. Beninteso, l’impegno fisico di Keanu Reeves si vede tutto, e Chad Stahelski è ancora capace di girare l’azione: purtroppo, però, la perizia nel coreografare e filmare gli scontri non basta. I combattimenti si protraggono talmente a lungo, e con situazioni talmente assurde, che ben presto scatta l’assuefazione. Con la sua sovrabbondanza di stimoli sensoriali, John Wick 4 vuole risvegliarci dal torpore desensibilizzante della cultura pop, ma finisce solo per contribuire al medesimo rumore di fondo. Ne usciamo stanchi, inebetiti e annebbiati, chiedendoci cosa si inventeranno la prossima volta solo per farci provare qualcosa.

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