Empire of Light è molto più di quello che sembra

Empire of Light è molto più di quello che sembra

Di Giulio Zoppello

Difficilmente troverete due persone che la pensino allo stesso modo su Sam Mendes, regista che ha conosciuto alti e bassi non tanto dal punto di vista qualitativo ed estetico, ma per quello che riguarda il gradimento della critica e del pubblico. Empire of Light è il suo nuovo film, forte di un grande cast, nonché di una sceneggiatura che solo apparentemente è semplice, nella realtà è una delle più audaci viste ultimamente, il che forse spiega anche perché non abbia avuto quell’accoglienza calorosa che oggi viene destinata solo a film di facile fruizione e comprensione.

Una donna, un ragazzo e un cinema

La vita di Hilary (Olivia Colman) non è esattamente quella che tutti sogniamo. Cinquantenne, da poco tornata a lavorare nel multisala più importante di una città del Kent, è però una donna molto sola, molto triste e depressa. Donald Ellis (Colin Firth) il direttore del cinema, la usa sostanzialmente come una sorta di passatempo sessuale, la umilia e il resto della sua vita è sostanzialmente vuota, si sente invecchiata e poco attraente, non ha amici o vita sociale. Tutto questo cambia quando al cinema fa la sua comparsa Stephen (Michael Ward), un ragazzo di origini africane, molto attraente, allegro e che fin da subito mostra una spiccata simpatia per quella donna, anche se all’inizio ne viene maltrattato.
Nel giro di poco tempo il rapporto tra i due si farà più intimo, al netto di sensi di colpa, chiacchiericci e della situazione tutt’altro che semplice dell’Inghilterra di quegli anni ‘80 stretta tra thatcherismo, crisi economica, tensione politica e razzismo. Ma che sarà di loro due?
Empire of Light ci offre una storia d’amore atipica, fragile eppur potente, lo fa basandosi su una sceneggiatura scritta da Mendes con Pippa Harris che pone soprattutto al centro di tutto non tanto l’iter diegetico in sé, ma i personaggi, la loro psiche, il loro reagire alla vita con le sue difficoltà.
Empire of Light strizza l’occhio alla cinematografia autoriale transalpina, così come a quella dell’Italia che fu, rimanendo però sotto le righe, con un tono compassato che rende il tutto ancora più verosimile, più umanamente coinvolgente. Un film con cui Sam Mendes conferma di essere non un regista per tutti, ma un regista che tutti dovrebbero scoprire, per la sua capacità di essere atipico, sensibile, distante dalla volontà di imboccare il pubblico costantemente, di fare della vita un ritratto per immagini semplicistico e lineare.

La settima arte come metafora esistenziale

Sam Mendes sfida la nostra sensibilità con un film che ha già diviso ampiamente Oltreoceano e Oltremanica, che molti hanno paragonato a The Fabelmans di Spielberg e a Babylon di Chazelle, a quella lista di opere che parlano di cinema, in un momento in cui le sale sono in grandissima sofferenza, secondo molti addirittura sull’orlo dell’estinzione. Eppure, la realtà è che Empire of Light è soprattutto un film sul dolore e la solitudine, nonché uno spaccato sociale e storico di grande interesse. Sam Mendes si conferma soprattutto un regista in grado di dare un senso pittorico unico alle sue immagini, di comporle e poi scomporle con una maestria che pochi oggi al mondo possono rivendicare. Se con 1917 si era parlato di una certa freddezza del suo stile, di una sceneggiatura troppo evocativa, questo film invece ci ricorda che più che di freddezza, la sua la volontà è quella di dare tutto quello che può ai personaggi, alla loro caratterizzazione. Tra i tanti registi odierni, ben pochi hanno la capacità di descrivere e tratteggiare personalità al femminile come lui, che qui ci ricorda ancora una volta quanto Olivia Colman sia una delle più grandi attrici della sua generazione. Lei, la sua Hilary, sono il simbolo di un film molto antiamericano, anche in virtù di un’estetica che per quanto curata, è molto distante dall’essenza glamour e patinata che in questo momento Hollywood cerca di affibbiare a qualsiasi cosa, a dispetto del genere.
Empire of Light è soprattutto micronarrazione rappresentativa di quegli anni ’80, in cui ci si dimentica di quanto problematico fosse il Regno Unito e quanto soprattutto fosse difficile essere diversi dalla norma. Tutti elementi resi in modo equilibrato, all’interno di una storia d’amore atipica per età e per personalità dei due protagonisti.

Tra omaggio al classicismo ed esistenzialismo

Nella cinematografia attuale, ben pochi personaggi femminili sono più potenti, struggenti e coinvolgenti di Hilary, a cui la Colman dona una disperazione, una fragilità che potremmo quasi definire un omaggio al neorealismo italiano. Disperatamente sola, dimessa poco tempo prima da un istituto di salute mentale, si incammina verso un percorso di liberazione caotico e irresistibile. Vi è molto humor in questo film, in questa storia anche corale dentro questo cinema di provincia, in cui il Donald di Colin Firth è il simbolo per eccellenza di una mascolinità tossica ipocrita ed insicura. Il cinema qui più che rappresentare la vita, rappresenta i sentimenti inespressi, quelli di una donna costantemente usata ed umiliata, che odia ciò che vede dentro allo specchio, sola in una città fredda, a cui la fotografia del solito impeccabile Deakins dona toni metallici, malinconici. I colori arrivano soltanto alla fine, struggente ma non per questo priva di bellezza e verità. Come ha fatto anche in passato, Mendes abbraccia non solo il cinema, ma ne fa veicolo per nobilitare l’arte in generale, la poesia, la pittura, come risorsa per l’anima, mentre ci mostra il Regno Unito scosso dall’ondata dell’estrema destra, il maschilismo istituzionalizzato.
Contemporaneamente, la sala cinematografica è tanto protagonista quanto in disparte, Hilary e gli altri non la vedono quasi mai, è una Caverna di Platone che omaggia Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore. Mendes infatti ce ne spiega l’arte, la complessità del suo passato tecnico, l’importanza della sua presenza nelle nostre vite. Ma soprattutto, Empire of Light è un grande film sulla rinascita, sulla capacità di perdonare e chiedere aiuto, di amare ed essere amati, di andare oltre le apparenze e quelle piccole cose che in realtà non contano. Davvero difficile capire perché un film così delicato e così coerente sia stato tanto maltrattato dalla critica anglosassone. Forse perché non accettiamo la narrazione che sottolinei la bellezza delle imperfezioni, così come la verità priva di una retorica.

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