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Armageddon Time è l’eterno ritorno della Storia

Pubblicato il 21 marzo 2023 di Lorenzo Pedrazzi

Nell’autunno del 1980, periodo in cui James Gray ambienta il suo Armageddon Time, Ronald Reagan si appresta a vincere le elezioni presidenziali statunitensi, staccando di netto il Presidente uscente Jimmy Carter. Le sirene dell’apocalisse, che pure non smettono mai di suonare, aumentano d’intensità: l’irruenza di Reagan in politica estera risveglia infatti i timori di una guerra nucleare con l’Unione Sovietica, mai così concreti fin dai tempi della crisi di Cuba. Nei salotti di chi ha votato democratico gli sguardi avviliti danno per certo il conflitto imminente, mentre i padri scuotono la testa davanti al televisore. Ovviamente la guerra nucleare non c’è stata, ma gli incubi di quell’epoca storica risuonano nel presente, e forse anche noi dovremo attendere degli anni prima di poter contestualizzare le nostre paure.

Ciò non significa che Armageddon Time sia immerso in un clima da fine del mondo, nonostante il titolo rievochi la quasi omonima canzone dei Clash (Armagideon Time, cover di un brano di Willie Williams). Ogni generazione si abitua a convivere con le sue ansie millenaristiche, senza che la quotidianità ne venga intaccata. James Gray lo ricorda bene: il film è ispirato alla sua infanzia, secondo quella tendenza all’autobiografismo che lo accomuna alle ultime regie di Alfonso Cuarón, Paolo Sorrentino, Kenneth Branagh, Steven Spielberg e Sam Mendes. Qui non c’è il cinema, ma c’è comunque l’arte, ovvero il sogno di diventare un pittore come Kandinskij, artista che colpisce l’undicenne Paul Graff (Banks Repeta) durante una visita al Guggenheim di New York City. In famiglia, però, solo il nonno Aaron Rabinowitz (Anthony Hopkins) lo incoraggia a seguire quella strada, mentre la madre Esther (Anne Hathaway) e il padre Irving (Jeremy Strong) vogliono per lui una professione più remunerativa.

A scuola, Paul fa amicizia con Johnny Davis (Jaylin Webb), ragazzino afroamericano che viene sempre preso di mira dall’insegnante. Attraverso il rapporto con lui, il protagonista vede le discriminazioni socio-razziali che funestano gli Stati Uniti, e ogni tentativo di porvi rimedio usando il proprio privilegio – soprattutto quando Paul viene obbligato a lasciare la scuola pubblica per iscriversi a un istituto privato – non fa che creare maggiori problemi.

L’anima di Paul è quindi divisa tra due mondi: da una parte troviamo la stabilità familiare, supportata da una scuola che promuove conformismo, competitività ed efficienza; dall’altra c’è la ribellione incarnata da Johnny, molto più in linea con l’eccitante prospettiva di una carriera artistica. Armageddon Time non è un film di grande complessità espositiva – anche perché la sceneggiatura è fin troppo meccanica nella sua successione di eventi – eppure Gray ha il merito di impostare un dialogo tra passato e presente. In questo eterno ritorno di timori e minacce, la scuola privata di Paul è finanziata dalla famiglia Trump (notevole il cameo di Jessica Chastain nel ruolo di Maryanne, sorella maggiore di Donald), mentre l’incubo nucleare torna oggi di grande attualità, passando dalla vecchia Guerra Fredda a quella nuova.

James Gray si trova chiaramente più a suo agio fra le strade del Queens – dov’è cresciuto – che nei viaggi interplanetari del pur valido Ad Astra, e il recupero delle sue radici può essere letto come una reazione a quel progetto fantascientifico, così anomalo nella sua filmografia. Rispetto ad altre sue regie, però, Armageddon Time attinge a topoi più diffusi, immediatamente riconoscibili agli occhi del pubblico: la ribellione contro le aspettative paterne, il nonno come bussola morale (meraviglioso Anthony Hopkins in questo ruolo), il desiderio di libertà dalle convenzioni sociali, e le ragazzate in stile Antoine Doinel che sfociano nel crimine. Le conseguenze divergono a seconda della provenienza etnica ed economica, mostrando a Paul il vero volto della nazione.

Come ogni racconto formativo che si rispetti, anche Armageddon Time è la storia di una presa di coscienza: dei limiti e delle debolezze dei genitori, delle proprie aspirazioni personali, delle ingiustizie di una società elitista che si nasconde dietro la retorica del progresso. Nel paese dove tutti dovrebbero avere pari opportunità, l’aristocrazia economica ha preso il posto della vecchia nobiltà europea, e Fred Trump si rivolge agli studenti di Forest Manor come se fossero il popolo eletto. Non a caso, le elezioni del 1980 sono quelle in cui gli Stati Uniti scelsero la futura base ideologica del movimento conservatore, sia per l’aggressivo neoliberismo (con la riduzione dell’intervento statale in economia) sia per l’idea populista di un presidente “cittadino fra i cittadini”. È lì che Gray individua i germogli del nostro presente, anche per l’ipocrisia di chi, pur disgustato da quella parte politica, non tenta di cambiare lo status quo ma vuole solo vedere i propri figli seduti allo stesso tavolo dei potenti. Al contrario dei genitori, però, Paul volta letteralmente le spalle a quel sistema che disprezza, capace solo di venerare il successo e l’affermazione individuale. Quello è il suo momento di svolta, l’emancipazione definitiva dall’ipocrisia dei padri. D’altra parte, lo sguardo di un artista serve anche a sottolineare queste contraddizioni.