The Last of Us – Episodio 5, la recensione di Roberto Recchioni

The Last of Us – Episodio 5, la recensione di Roberto Recchioni

Di Roberto Recchioni

Fino a questo momento, nel parlare dell’adattamento televisivo a opera di Craig Mazin e Neil Druckmann di The Last of Us, il capolavoro videoludico creato da Druckmann stesso (e da Bruce Straley, vale sempre la pena ricordarlo visto che in HBO e in Naughty Dog preferiscono non farlo), ci siamo soffermati sulla fedeltà allo spirito dell’opera originale, sull’intelligenza dei “tradimenti” apportati a essa, sullo straordinario cast, sulle ottime regie, sulla strepitosa colonna sonora e, ovviamente, sulla bontà di una scrittura capace di prendere l’apocalisse zombie creata da George Romero, ibridarla con un topos narrativo ormai classico che prende le mosse da Il Grinta di Henry Hathaway, passa per Lone Wolf and Cub di Kazuo Koike e Gōseki Kojima e viene reinventato da La strada di Cormac McCarthy (opera che, a sua volta, genera un’infinità di figli più o meno diretti, troppi per elencarli qui) e usare il tutto per raccontare storie dolenti di una umanità ferita. Quello di cui non abbiamo parlato, invece, sono tre caratteristiche del lavoro di Mazin e Druckmann che, in questo quinto episodio, spiccano con particolare brillantezza: la densità della narrazione, la sintesi e l’equilibrio.

La puntata cinque di The Last of Us si fa carico di raccontare, in appena cinquantanove minuti, una parte piuttosto estesa del gioco originale che, al suo interno, non contiene solo la (straziante) storia di Henry e del suo fratellino Sam ma anche quella di Ish e Danny e della loro comunità sotterranea. Poi ci sono, ovviamente, le vicende che riguardano Joel ed Ellie e, in aggiunta, tutta una parte narrativa inedita che riguarda Kathleen, la leader dei rivoltosi di Kansas City, e i suoi accoliti. Oltre a questo (come se la carne al fuoco non bastasse), c’è anche un momento dinamico estremamente articolato che porta a schermo la famigerata scena del cecchino, resa ancora più complessa, profonda, ma pure spettacolare rispetto al videogioco. Così tanta roba che sarebbe bastata per fare almeno due puntate di una serie normale (e un’intera stagione di The Walking Dead) e che, invece, Mazin e Druckmann (e Jeremy Webb, regista dell’episodio) riescono a racchiudere in meno di un’ora, sintetizzando tutto quello che era necessario sintetizzare senza tradire la storia originale ma, anzi, arricchendola di sfumature, arrivando al cuore emotivo di ogni momento pur non tralasciando mai il ritmo e l’azione, trovando uno straordinario equilibrio tra tutti le parti e valorizzandone ogni elemento. La puntata, come ormai consueto per la serie, si apre con un flashback che ci permette di approfondire la storia del mondo in cui siamo calati e dei suoi personaggi secondari. Dal flashback ci si collega (con uno straordinario meccanismo narrativo a incastro e sovrapposizione, servito con molta eleganza e naturalezza) a quanto narrato nel quarto episodio e da quel punto si procede in avanti, prendendosi poche e mirate pause, per mettere in luce le motivazioni dei vari personaggi e ribadire, ancora una volta, che nel mondo di The Last of Us non esistono buoni o cattivi ma solo persone che cercano di barcamenarsi in qualche maniera tra l’abisso morale e la morte. A quel punto, si va verso il finale, che è strutturato come un momento action (con tanto di mostri e via discorrendo) ma che al suo interno contiene tanto degli elementi di narrazione primaria (ovviamente incentrati su cosa succede a Joel ed Ellie) quanto elementi di narrazione secondaria (il destino di Kathleen, messa davanti alle conseguenze delle sue azioni dissennate, guidate solo da un odio che non riesce a placare) e, persino, tracce di narrazione terziaria (come la bambina clicker che non è difficile immaginare che fosse una delle ragazzine della comunità difesa da Ish e Danny). Tutto qui (come se fosse poco)? Ovviamente, no. Perché dopo lo spettacolare momento d’azione e di violenza, questa quinta puntata di The Last of Us torna a volerci strappare il cuore e, in uno spietato controfinale, chiude la storia verticale di Henry e Sam e ci riporta (amaramente) sulla strada di quella orizzontale. I nostri protagonisti si rimettono in cammino, lasciandosi alle spalle tanto orrore e sofferenza, diretti verso altro orrore e sofferenza. Il tutto, lo ripeto, in appena cinquantanove minuti.
Densità narrativa, sintesi, equilibrio.

Una narrazione perfetta, consapevole dei propri mezzi, che non allunga in nessuna maniera il brodo ma che non prende nemmeno scorciatoie, e che riesce a creare un episodio perfetto e, per molti versi, autonomo, che è pure una parte fondamentale del quadro complessivo.
In poche parole, questo quinto episodio di The Last of Us è un perfetto esempio di cosa la serialità televisiva dovrebbe essere sempre e che, invece, negli ultimi anni non è quasi mai.
Mirabile.

The Last of Us è disponibile in Italia su Sky e in streaming solo su NOW, in contemporanea con gli USA.

QUI trovate tutte le recensioni di TLOU scritte da Roberto Recchioni

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