Kill Me If You Can, la recensione del film di Alex Infascelli

Kill Me If You Can, la recensione del film di Alex Infascelli

Di Lorenzo Pedrazzi

Alex Infascelli ha passato i suoi trent’anni cercando di resuscitare il cinema di genere italiano (con netto anticipo rispetto a colleghi come Matteo Rovere e Gabriele Mainetti), ma l’impulso a rapportarsi in modo più diretto con i suoi soggetti lo ha condotto sulla strada del documentario. Forse non è un caso che la svolta sia arrivata dopo alcune esperienze televisive, durante le quali – forte dei suoi trascorsi nei videoclip – ha persino condotto Brand:New su MTV. S Is For Stanley e Mi chiamo Francesco Totti gli hanno infatti permesso di riscoprire il cinema come strumento di indagine e approfondimento, narrando le storie di due personaggi straordinari che affondano le radici nel nostro immaginario collettivo. Alla luce di tutto questo, Kill Me If You Can non fa che consolidare la nuova “poetica” del cineasta romano, i cui protagonisti vivono letteralmente fuori dall’ordinario, e trovano in lui un cantore appassionato.

Quella di Raffaele Minichiello, a tal proposito, è davvero una vita incredibile. Emigrato con la famiglia a Seattle nel 1963, si arruola nei Marines prima ancora di compiere 18 anni, e ottiene una medaglia al valore militare in Vietnam. Il ritorno negli USA, però, non è soddisfacente: quando ritira il suo salario, Minichiello riceve solo 600 dollari (200 in meno di quanto si aspettasse), e tenta di rubare la differenza in cibo e bevande da uno spaccio dell’esercito. Arrestato, riesce a evitare la corte marziale, ma continua a nutrire un certo rancore per l’ingiustizia subita. Il 31 dicembre 1969, dopo aver evitato i controlli grazie a un gruppo di hostess, sale su un volo della TWA con una carabina nel borsone, e dirotta l’aereo. Ha inizio così un’odissea durata 19 ore, il dirottamento più lungo nella storia dell’aviazione civile, nonché il primo su scala intercontinentale. Un’impresa senza vittime né feriti: durante la prima tappa per il rifornimento di carburante, a Denver, Minichiello accetta infatti di liberare i passeggeri e quasi tutto il personale di volo, a parte la hostess Tracy Coleman, che rimane di propria volontà. La sua avventura termina a Roma, dove viene bloccato dopo una breve fuga.

Kill Me If You Can

Kill Me If You Can non si limita a ricostruire il dirottamento (che occupa solo il primo terzo del film), ma traccia la parabola umana e sociale di Minichiello nel corso dei decenni successivi. Il giovanissimo ex marine fu giudicato dalla legge italiana, mentre negli USA avrebbe rischiato la pena di morte: all’epoca l’Italia giocava un ruolo più determinante negli equilibri globali, e negare l’estradizione al potente amico americano non era affatto impensabile. Siccome i giudici gli riconobbero molte attenuanti, Raffaele scontò solo un anno e mezzo di carcere, e ne uscì come una celebrità nazionale. È anche per questo che Infascelli ha potuto lavorare con straordinari materiali d’archivio. Se la televisione statunitense seguì il dirottamento minuto per minuto, quella italiana pedinò Minichiello non appena giunse a Roma, trattandolo come una superstar. Ciò che traspare dal documentario è quindi un passaggio storico decisivo nella nostra contemporaneità: il momento in cui un fenomeno mediatico può trascendere le sue stesse origini o colpe, facendosi icona dell’immaginario collettivo. Da persona, Minichiello diventa personaggio. Gli offrono film, interviste, sessioni fotografiche osé, incontri con stelle della TV e del cinema, lavori di ogni genere: insomma, gode delle stesse opportunità che capiteranno nei primi anni Duemila ai concorrenti dei reality show, per quanto azzardato possa sembrare il paragone. Eppure, i meccanismi della fama non sono molto diversi.

La sintesi della sua esistenza in 90 minuti è ammirevole, soprattutto se consideriamo il grande lavoro di indagine compiuto dal regista, ma resta l’impressione che manchi qualcosa. Una miniserie sarebbe stata forse più adatta a raccontare la vicenda, considerando le sue numerose ramificazioni. Non solo perché Minichiello ha involontariamente ispirato la creazione di Rambo (il reduce disilluso che compie azioni radicali dopo il suo ritorno in patria), ma perché il film dedica appena un cenno al tema del disturbo da stress post-traumatico, tipico di molti soldati, ed esclude alcuni passaggi importanti nella vita del protagonista. Le sue gesta hanno avuto ripercussioni notevolissime, e quantomeno la storia di Tracy – lei e Raffaele si sono cercati per 50 anni senza mai ritrovarsi – meritava di essere raccontata.

Emerge comunque un lavoro molto accurato sulle fonti, anche nella ricerca dei testimoni diretti, come i vecchi commilitoni e i passeggeri dell’aereo. Ciò che ne deriva è il ritratto di un uomo al crocevia tra due culture: quella italiana (l’arte di arrangiarsi, la diffidenza verso le istituzioni) e quella statunitense (la guerra come affermazione individualistica, l’amore per le armi). Ma, soprattutto, Infascelli ha il merito di lasciar parlare lo stesso Minichiello, perché solo così può aiutarlo a riappropriarsi della sua storia. Un’avventura paradossale, imbevuta di tragedia e commedia, come la vita stessa.

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