L’inizio parve promettente: Croisette di Cannes, della 51^ edizione. Non una cosa per tutti. Poi però il pubblico fu poco tenero con Alex Proyas e la sua creazione sci-fi: Dark City. Fu un fiasco doloroso che oltre a segnare la carriera del regista, condannò un film di grande bellezza ad essere il fratello sfortunato di quel Matrix che l’anno dopo fece la storia della settima arte. A 25 anni distanza però, Dark City merita di essere ricordato come uno dei film più visionari e innovativi di quel decennio, una perla capace di essere ponte tra passato e futuro del genere fantascientifico.
Un uomo (Rufus Sewell) si sveglia in una vasca, privo di ogni memoria passata. Nella stanza c’è il corpo di una prostituta, morta, e non sa se è lui il colpevole. Una telefonata lo avvisa di fuggire il prima possibile ma nel giro di pochissimo tempo è tallonato all’interno della sua città, una città che muta, cambia pelle, dominata dall’oscurità. L’unica persona di cui si può fidare è sua moglie Emma (Jennifer Connelly), mentre l’ispettore Bumstead (William Hurt) lo tallona spietato. A mano a mano che si va avanti, l’uomo comincia a capire, comincia a ricordare e si rende conto di essere all’interno di una realtà comandata da forze aliene ed oscure, gli Stranieri, che alterano la personalità degli abitanti ed i loro ricordi, in quella che è una gigantesca gabbia, che viene continuamente da questi esseri mutata, stravolta.
L’obiettivo finale? Capire che cosa rende gli esseri umani ciò che sono, qualcosa da fare in combutta con il Dottor Schreber (Kiefer Sutherland), ma che troverà proprio nel protagonista, John Murdoch, un ostacolo insormontabile. Dark City è uscito esattamente 25 anni fa; rimane ancora oggi una delle pellicole più amate dai fan della fantascienza e allo stesso tempo una delle più dimenticate dal pubblico mainstream, quello che l’anno dopo avrebbe incoronato Matrix delle sorelle Wachowski come l’ultimo, grande, film di fantascienza dell’era moderna, il monumento al XX secolo che finiva e al genere cyberpunk.
Ripescare questa perla firmata da Proyas, colui il quale ci donò un mito senza tempo come Il Corvo cinematografico, significa anche fare i conti con una delle opere più visionarie, coerenti, affascinanti di quel decennio. Di certo uno dei mondi sci-fi più riusciti non solo concettualmente, ma anche per ciò che riguarda i suoi significati, la sua eredità. Dark City con la sua natura ibrida a metà tra recupero del cinema che fu e visione di un futuro terrificante, è uno di quei film di fantascienza che rimangono un evento irripetibile.
La prima cosa che salta all’occhio di Dark City è la sua capacità di rendersi contenitore trasversale di un’analisi della società, in cui la fantascienza diventa uno strumento visivo-narrativo, più che un universo realmente coinvolto. Se questo può sembrarvi paradossale, bisogna tener presente il fatto che Proyas ebbe l’intuizione di creare un qualcosa che se da un certo punto di vista era sicuramente connesso ad Orwell, Pohl, Dick, d’altro canto recuperava molto del genere hard boiled cinematografico.
Tutti colsero l’abbraccio alle grandi pellicole degli anni 40 e 50 che ci avevano narrato della solitudine dell’individuo nelle suggestive città americane. Jennifer Connelly bellissima, disperata e sensuale, l’ispettore indurito, il protagonista in fuga contro la società, sono manifestazioni della connessione a quel periodo, in una distopia aliena che però strizza molto l’occhio anche alla filosofia orientale, alla ricerca dell’illuminazione, della verità. Dark City ci offre tutto questo ma senza scordarsi della fantascienza che fu, degli uomini in nero che poi si rivelano essere dei potentissimi alieni, che comandano quella città in cui si odono gli echi anche della metropoli come l’avevo immaginata Tim Burton per il suo Batman, ma più ancora Fritz Lang per Metropolis. Si tratta di fare un salto lungo decenni, recuperare un’altra colonna portante imprescindibile non solo e non tanto della fantascienza ma del cinema in generale. L’Espressionismo tedesco, il retro-futurismo, l’uomo come prigioniero di una realtà che lo vuole schiavo, che manipola la sua libertà, la sua personalità. Dark City è stato quindi soprattutto importante per questo, per ricordarci l’attualità di temi che pensavamo superati dalla fine della Guerra Fredda, presi come eravamo dall’ottimismo degli anni ‘90, senza accorgerci della tragedia che incombeva, e che eravamo stati proprio noi a confezionare con le nostre mani.
Ancora oggi, all’interno dell’universo dei fan della fantascienza, ci si divide tra chi considera Matrix dell’anno dopo una sorta di plagio commerciale, con le scenografie riciclate, la trama e il tema tutto sommato simile, e chi invece difende le sorelle Wachowski. La realtà è che i due film sono protagonisti di un percorso parallelo, ma anche molto differente. Dark City ci parla soprattutto di un microcosmo che rappresenta un macrocosmo, ci illumina sulla società in senso scientifico e non solo, ci parla dell’individuo diverso dagli altri che viene perseguitato, della verità che appartiene ai pochi.
Lo fa citando a modo suo anche Brazil e L’Esercito delle 12 scimmie, si pone come un contenitore di tutta una certa cinematografia incentrata soprattutto sulla libertà individuale anche in senso filosofico.
Matrix, invece, al netto delle creatrici che l’hanno infine voluto ridefinire come una storia d’amore, affonda le sue origini sia nella mitologia, compresa quella cristiana, che nella Storia della società del suo tempo e del futuro. Scevro dall’essere un racconto individuale, è un’istantanea della tecnocrazia in arrivo, della nostra incapacità di dominare la tecnologia che noi stessi abbiamo creato. Soprattutto, si poneva come l’ultimo atto di un’era dorata, gli anni ’90, prima dell’11 settembre. Dark City rifiutava il momento specifico, si poneva come metafora della ricerca del cuore dell’uomo, con entrambe le città come un’illusione e non è un caso che vi sia un eletto, e che sia soprattutto l’amore a smuoverlo. A dispetto del differente esito ai botteghini nell’immaginario collettivo, i due film sono uniti da una finalità comune nel farci comprendere come pur all’alba di un’era sempre più individualista, sia proprio la libertà dei singoli a venire a mancare.
Di certo dopo 25 anni, bisogna riconoscere che Dark City rappresenta una delle visioni più ingiustamente dimenticate che il cinema ci abbia donato.