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Clerks 3 è il memento mori della Generazione X

Pubblicato il 27 febbraio 2023 di Lorenzo Pedrazzi

Non appartengo alla generazione di Dante e Randal, che poi è la stessa di Kevin Smith. Anagraficamente sono più vicino a Elias, il commesso del Quick Stop che Randall prende in giro per il suo fanatismo religioso. Però sono cresciuto con i film della Generazione X, li ho visti passare in TV negli anni Novanta, e ne ho sempre percepito lo smarrimento rispetto alle sfide dell’amore, del lavoro, del sesso, della mera sussistenza. La verità è che i confini tra le generazioni sono più sfumati di quanto pensiamo, e molte di quelle sfide le abbiamo ereditate anche noi: semplicemente, la Generazione X si è trovata a vivere una fase di transizione fra le (relative) sicurezze dei baby boomer e le incertezze dei millennial, peraltro scontando in prima persona l’illusorio benessere degli anni Ottanta. Lo stesso Clerks rispecchiava il disincanto di chi era uscito con un pugno di mosche dall’edonismo reaganiano, ma ogni capitolo della trilogia interiorizza il presente del suo autore, il momento esistenziale in cui si trova. Se il primo film trasmetteva la vena sarcastica di un ventenne che lavora al minimarket e sogna il cinema, il sequel aveva tutto il calore di un marito e padre felice, ormai affermatosi come regista di fama internazionale. Di contro, Clerks 3 è attraversato da un’amara consapevolezza che lascia quasi spiazzati, ma in linea con le vicissitudini recenti di Kevin Smith.

Sono trascorsi quindici anni da quando Dante (Brian O’Halloran) e Randal (Jeff Anderson) hanno acquistato il Quick Stop, e le loro vite non sono affatto cambiate. Per Dante è un dramma: ha infatti perso l’amata Becky (Rosario Dawson) nel 2006, investita da un guidatore ubriaco quando era incinta della loro figlia. Al negozio lavora il sopracitato Elias (Trevor Fehrman), mentre Jay (Jason Mewes) e Silent Bob (Kevin Smith) hanno trasformato il vecchio videostore in una rivendita di marijuana. Il tempo è come congelato nella provincia americana: impossibile non provare tenerezza per questi cinquantenni che si vestono ancora come adolescenti del ’94, bloccati nell’illusione di un eterno presente (come tutti i personaggi seriali, d’altra parte). In effetti, la sensazione iniziale è che Smith non sia in grado di lasciarsi alle spalle il passato. Le schermaglie verbali paiono gratuite, i riferimenti alla cultura pop suonano forzati, e la spontaneità degli esordi sembra molto lontana. Ma è solo una trappola, perché il film parla di ben altro.

Kevin Smith è stato colpito da attacco di cuore nel 2018, all’uscita da uno spettacolo in California. La sua amica Lisa Spoonauer, interprete di Caitlin nel primo Clerks ed ex moglie di Jeff Anderson, è morta nel 2017. Una tragedia sfiorata, e una purtroppo compiuta. Guardandosi indietro, il regista capisce che l’eterno presente non esiste, e che l’invecchiamento implica sia il deperimento del corpo sia la perdita di persone care, cui si accompagna una nuova presa di coscienza. Mentre attinge letteralmente al suo vissuto per la trama (la morte di Becky, l’infarto di Randal), Smith riversa nella sceneggiatura la consapevolezza della sua mortalità, la stessa di una generazione che ha superato i cinquant’anni. Clerks 3 è il memento mori della Generazione X, il definitivo superamento della sua adolescenza posticipata, se ancora ce ne fosse stato bisogno. Non c’è però alcuna resa alla retorica borghese, questo no: sfiorata la morte, Randal non decide di “farsi una vita” mettendo su famiglia o cose del genere. Al contrario, decide di girare un film nel Quick Stop, e quel film non è altro che il Clerks originale.

Il rischio di fagocitare sé stessi è concreto, ma Smith non scivola in un delirio egoriferito: l’espediente metanarrativo del primo Clerks diventa infatti un modo toccante per chiudere un ciclo, salutando quei personaggi che gli hanno dato la fama, e che lui ha estrapolato dalle sue esperienze reali. Corsi e ricorsi storici, insomma. Il cinema si conferma quella forma d’arte popolare capace di rielaborare i lutti, esorcizzare le perdite, innescare catarsi personali e collettive. Non è certo un caso che il film sia dedicato proprio a Lisa Spoonauer, né che il regista decida di parlare direttamente con il pubblico nei titoli di coda: il suo cinema è una chiacchierata in libertà tra amici, che traduce sullo schermo un modo di esprimersi molto confidenziale, naturale. C’è amarezza, ma anche un’apertura verso il prossimo che lo distanzia dalle idiosincrasie di un tempo. La sua forza, al netto di qualche balbettio registico e un paio di gag non memorabili, è proprio questa: non si abbandona al nichilismo, ma guarda al futuro con la consapevolezza del tempo che passa. Va in quella direzione anche la scelta di Welcome to the Black Parade dei My Chemical Romance, inno emo dei primi Duemila che contribuisce a sfumare i confini tra le generazioni, preannunciando quell’alternanza di azione e malinconia che caratterizza il film.

Maturità non significa necessariamente disaffezionarsi a Star Wars o altri idoli pop (che infatti sono molto presenti anche qui), ma capire che il mondo non è binario, non è come il bianco e nero del primo Clerks: gioia e dolore possono coesistere, si mescolano in colori nuovi, e spesso fanno parte della medesima esperienza. Kevin Smith continua a parlare la lingua del suo pubblico, indipendentemente dall’età.