Bussano alla porta, la recensione del film di Shyamalan

Bussano alla porta, la recensione del film di Shyamalan

Di Lorenzo Pedrazzi

C’è una scena di Bussano alla porta in cui Dave Bautista e gli altri invasori menzionano una chat dove si scambiavano messaggi. È un piccolo dettaglio, ma basta per confermare i sospetti di Andrew, il personaggio interpretato da Ben Aldridge, preso in ostaggio insieme al suo compagno Henry (Jonathan Groff) e alla figlioletta Wen (Kristen Cui) in una baita circondata dai boschi. Il riferimento alla chat, in effetti, rievoca subito 4chan e i complottismi che prosperano su quella piattaforma, stabilendo un contrasto ideologico che riassume certi schematismi del nostro presente: da un lato il progressismo liberal di Andrew, dall’altro la devozione reazionaria dei misteriosi aggressori, almeno secondo la visione dell’uomo.

È un dialogo tra sordi, come potete immaginare. Nessuna delle due parti è disposta a mettere in discussione le proprie certezze, al di là di quanto possano essere sbalorditive le “prove” fornite dai quattro invasori, o di quanto siano razionali e sensate le spiegazioni di Andrew. D’altra parte, come dargli torto? Il gruppo guidato da Leonard (ovvero il personaggio di Bautista, sempre più all’altezza delle prove drammatiche) gli è piombato in casa brandendo minacciose armi bianche, e ha immobilizzato sia lui sia Henry. Il loro atteggiamento, però, è strano: usano la forza solo se strettamente necessario, e solo quel tanto che basta per bloccare le reazioni della coppia. Sono gentili, premurosi, capiscono la gravità della situazione e ne sono mortificati. Ma Leonard dice che Andrew, Henry e la piccola Wen sono stati scelti per prendere una decisione: le sorti dell’umanità poggiano sulle loro spalle, e sulla tragica scelta che dovranno fare. Se si rifiutano, il mondo finirà nel sangue.

Bussano alla porta

Il soggetto deriva da La casa alla fine del mondo di Paul Tremblay, ma M. Night Shyamalan traspone il libro a modo proprio, assecondando una poetica che coltiva ormai da più di vent’anni. Come thriller, Bussano alla porta è pressoché impeccabile: tesissimo e compatto, riesce a rendere interessante uno dei sottogeneri più ripetitivi del cinema horror, quello dell’home invasion. Rispetto a molti altri esponenti della categoria, infatti, qui abbiamo una trama, abbiamo veri conflitti ideologici e caratteriali, nonché una posta in gioco molto alta. Inoltre, la particolarità delle circostanze permette a Shyamalan di rovesciare la formula: sono le vittime a esercitare un potere di vita e di morte, non i carnefici. Un home invasion al contrario, per certi aspetti, dove il regista cerca di essere originale anche nella messa in scena dell’azione.

Tale ribaltamento gli consente di mostrare l’assurdità dell’orrore, tanto più scioccante perché incomprensibile, quasi surreale. Non è un caso che Bussano alla porta sia anche il suo film più sanguinoso, il più esplicito nel rappresentare la violenza: Shyamalan sa benissimo che, in un contesto del genere, sarebbe ipocrita nasconderla. In fondo, la Bibbia stessa non è piena di atrocità, morte e sangue? La morale cristiana del regista sembra recuperare un’idea di religione più vicina all’Antico Testamento che alla visione corrente del rapporto col divino, anche per la concezione del sacrificio. A ben vedere, è proprio qui che risiede l’aspetto più problematico del film. Lo sguardo di Shyamalan è sempre stato molto preciso nel definire la realtà, senza lasciare spazio a interpretazioni: i suoi classici colpi di scena finali garantiscono infatti una soluzione univoca, definendo i contorni della realtà stessa.

Bussano alla porta

Questa formula ha funzionato anche in ambito religioso (pensiamo alla provvidenza di Signs), ma Bussano alla porta affronta il tema da un’angolazione ben più delicata, che coinvolge il ritorno dei fanatismi e dei credi millenaristici. In tempi di complottismi esasperati e ideologie radicali, assecondare simili convinzioni desta qualche dubbio. Ovviamente Shyamalan si dimostra coerente con sé stesso, e modifica il romanzo di Tremblay per adattarlo alla propria sensibilità. Eppure, viene da chiedersi se non sarebbe stato meglio – almeno stavolta – lasciare al pubblico la facoltà di trarre le proprie conclusioni, permettendogli di ragionare un po’ con la sua testa. L’ambiguità non è sempre sinonimo di indecisione o mancanza di coraggio, anzi, può tradursi in uno spazio di riflessione e rielaborazione. Forse il film ne avrebbe giovato.

Insomma, le scelte del regista fanno di Bussano alla porta un vero e proprio manifesto dei nostri tempi, dove l’irrazionale ha il sopravvento sulla ponderatezza, e l’unione di menti sconvolte riesce a concretizzare anche l’impensabile, per quanto insensato possa sembrare. Che si tratti o meno di una scelta consapevole da parte dell’autore, è un altro discorso.

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