The Quiet Girl è un antidoto al brusio del mondo

The Quiet Girl è un antidoto al brusio del mondo

Di Lorenzo Pedrazzi

C’è un famoso segmento de Il senso della vita in cui i Monty Python ironizzano sulla prolificità delle famiglie cattoliche, molto numerose perché la religione vieta loro di usare contraccettivi. Siamo nello Yorkshire, e quando la fabbrica locale chiude i battenti, il padre torna a casa per comunicare ai figli la triste novella: non potendo più mantenere quell’esercito di pargoli, sarà costretto a venderli per degli esperimenti scientifici. «Ogni spermatozoo è sacro» spiega l’uomo nella canzoncina che segue, ma è una magra consolazione: nessun bambino, lo sappiamo bene, chiede di essere messo al mondo.

Anche la piccola Cáit di A Quiet Girl deve aver pensato la stessa cosa, di fronte all’ennesima negligenza dei genitori. Figlia di due contadini nell’Irlanda rurale del 1981, Cáit è la più silenziosa tra le sue molte sorelle, oggetto di scherno sia in famiglia sia a scuola. Quando la madre rimane nuovamente incinta, decide di mandare la bambina a trascorrere l’estate da sua cugina Eibhlín Cinnsealach e dal marito Seán, che gestiscono un allevamento a tre ore da lì. Cáit scopre così un clima ben diverso: Eibhlín e Seán – oltre a essere molto più benestanti – non vedono la bambina come un incomodo, ma la circondano d’amore, stanno attenti alle sue esigenze e le insegnano a svolgere diversi compiti nella fattoria. Ben presto, però, Cáit scopre che i Cinnsealach nascondono anche un segreto, e quella sarà la chiave per capire molte cose su di loro.

Recitato quasi esclusivamente in gaelico (caratteristica che lo ha reso eligibile come Miglior Film Straniero agli Oscar, prima volta per una produzione irlandese), The Quiet Girl adatta il racconto Foster di Claire Keegan in un dramma compatto e ragionato, dove spesso gli spazi esteriori riflettono quelli interiori. Nella cupezza della casa natale c’è tutto il disagio di Cáit, la quale rinasce tra gli altissimi alberi che portano alla fattoria dei Cinnsealach, ammorbidita da una luce dolcissima che filtra dalle finestre. In effetti, il regista esordiente Colm Bairéad imposta il film sui parallelismi: esemplari, in tal senso, le diverse reazioni della madre e di Eibhlín all’enuresi notturna della bambina, o il progressivo affetto di Séan contrapposto alla rude indifferenza del padre biologico.

I silenzi diventano quindi per Cáit una reazione naturale, di pura sopravvivenza: in una famiglia dove ti colpevolizzano per il solo fatto di essere nata, e ogni figlio è visto come un fastidio da sfamare, meglio farsi notare il meno possibile. Al contempo, però, rappresentano anche la sua risposta al brusio di un mondo che ama parlare senza ragione, tanto per dare fiato alla bocca. «Dice solo quello che ha bisogno di dire» risponde Séan alla vicina ficcanaso che lo interroga sulla bambina. Ed è proprio con lui, nonostante le frizioni iniziali, che Cáit stabilisce il rapporto più profondo. Sono spiriti affini: entrambi pacati, presenze silenziose che restano ai margini, ma capaci di “sentire” più di chiunque altro. Parlano solo quando lo ritengono necessario, perché «Sono in molti ad aver mancato l’occasione di stare zitti, e hanno perso moltissimo per quel motivo».

Così, il film eredita il passo quieto e misurato dei suoi personaggi, senza mai scivolare in eccessi melodrammatici né in toni parossistici. La stessa Catherine Clinch, splendida interprete di Cáit, non ha bisogno di molte battute per esprimere i conflitti della protagonista, ma le basta coagularli nello sguardo, che Bairéad riesce a cogliere con una regia delicata e intimista (merito anche dell’ottima fotografia di Kate McCullough e del formato in 4:3). Nella linearità del suo racconto tradizionale, The Quiet Girl dà voce alla profonda dignità del dolore, immaginando personaggi verosimili che s’incontrano, si conoscono e si amano. Perché la vera famiglia non è necessariamente quella in cui nasciamo, ma quella che scegliamo lungo il cammino.

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