SerieTV Recensioni roberto recchioni
Quando la HBO annunciò in pompa magna di aver acquistato i diritti per un adattamento televisivo di The Last of Us, il capolavoro videoludico di Neil Druckmann e Naughty Dog e titolo di punta del catalogo esclusivo di Sony PlayStation, fu chiaro subito a tutti che si sarebbe trattato di qualcosa di speciale. I motivi erano molteplici.
Da una parte, c’era il fatto che la HBO non era un’emittente qualsiasi, ma il network che più di ogni altro aveva elevato la qualità del prodotto televisivo negli ultimi trent’anni con opere come I Soprano, The Wire, Oz, Six Feet Under, Deadwood, Band of Brothers, Boardwalk Empire, The Night of, The Newsroom, Il Trono di Spade, Vinyl, Chernobyl, Succession, Euphoria (e molte, molte altre) e che mai prima d’ora si era dedicata a un adattamento legato al mondo dei videogiochi. Dall’altra parte, c’era l’importanza del titolo su cui aveva deciso di concentrarsi, quel The Last of Us che tanto il pubblico, quanto la critica mondiale, avevano decretato essere una delle migliori (se non LA migliore, almeno fino all’uscita del secondo capitolo) opere videoludiche di stampo narrativo mai realizzate. Infine, c’erano i nomi coinvolti. Prima di tutto, quello di Craig Mazin, il creatore e lo showrunner di Chernobyl, una miniserie che aveva portato alla HBO un ottimo successo di pubblico, un gran numero di premi internazionali e un plauso mondiale praticamente unanime. E poi, Neil Druckmann, ovvero il creatore del gioco originale. E il suo coinvolgimento non era per nulla scontato. Di solito, infatti, il cinema e la televisione statunitense non amano coinvolgere l’autore originale da cui traggono le loro opere derivate. Ci sono nobili eccezioni, ovviamente (una su tutte: Mario Puzo per Il Padrino) ma, in linea generale, il sistema produttivo americano tende a ritenere che il coinvolgimento diretto dell’autore originale sia più un problema che un valore aggiunto, questo perché il creatore di un’opera è molto legato alla forma che ha dato al suo lavoro e poco incline ad accettare i cambiamenti necessari (necessari dal punto di vista delle produzioni, sia chiaro) nel processo di adattamento. Il coinvolgimento di Druckmann nel progetto televisivo di The Last of Us segnalava la volontà della HBO di rispettare quanto più possibile la storia che in tanti avevano giocato, vissuto e amato, e questo era un segno molto rassicurante per i fan. Infine, c’era il cast, che tra un attore ormai affermato come Pedro Pascal e un talento emergente come Bella Ramsey, indicava chiaramente l’ambizione del progetto.
E questo spiega perché c’era molta attesa per la messa in onda di una serie che, sulla carta, poteva sembrare solo l’ennesima reiterazione della solita storia di un mondo andato allo sbando a causa di un morbo capace di trasformare la gente in degli zombie affamati di carne umana.
E prima di continuare, spendiamo due parole su questo aspetto.
Perché, sì, The Last of Us potrebbe sembrare l’ennesima variazione di quel mondo cinematografico popolato da zombie creato da George Romero e reso universalmente celebre dalla serie televisiva di The Walking Dead di turno visto che, in fondo, le premesse sono più o meno le stesse: c’è un morbo (in questo caso diffuso dall’evoluzione di un fungo) che trasforma le persone in mostri, c’è una pandemia globale, che ha trasformato il mondo in una dittatura militarizzata, e ci sono delle persone che, in questa nuova civiltà allo sbando, devono trovare una maniera per tirare a campare.
Quello che però fa la differenza, tra The Last of Us e tutte le altre opere che hanno preso spunto dalle intuizioni di George Romero, è che il videogioco di Druckmann dalla narrativa di zombie trae ben poco, andando a cercare la sua ispirazione, invece, da due altre opere seminali: da quel manga imprescindibile che è Lone Wolf and Cub di Kazuo Koike e Gōseki Kojima, e da quel capolavoro della letteratura mondiale che è La Strada di Cormac McCarthy. Queste due opere, specie negli ultimi anni, sono state fonte d’ispirazione per moltissime altre (da Road to Perdition a The Mandalorian, da Prospect alla serie televisiva di Halo, dalla seconda stagione del mio Orfani a Blood Father, da Logan alla nuova incarnazione di God of War, e potrei continuare a lungo…) ma è nel videogioco di The Last of Us che hanno trovato il migliore interprete moderno.
Questo significa che l’opera videoludica di Druckmann non si basa tanto sulla sopravvivenza di un mondo popolato di mostri (e con “mostri” intendo tanto gli infetti quanto gli esseri umani diventati belve, pur di sopravvivere), quanto sui rapporti interpersonali che si sviluppano tra un uomo ormai spezzato dalla vita e una giovane ragazzina che, invece, alla vita crede ancora. Su come questi due personaggi riescono a trovare un modo di convivere e come questa coppia si relazioni alle persone (e ai loro drammi e traumi) che incontrano nel loro lungo cammino. I mostri sono accessori. Persino l’apocalisse, per molti versi, è poco più di un fondale. Quello che conta davvero in The Last of Us sono i suoi personaggi e rapporti che li connettono o li separano.
La sfida che la serie televisiva della HBO doveva affrontare era rispettare questo aspetto dell’opera originale, senza cedere alla tentazione di spettacolarizzarla, per rendere il lavoro di Druckmann più largo, più facile, più digeribile e più simile a tutto il resto, omologandolo.
E, dopo aver visto tutta questa prima stagione, posso dirlo con serenità, la sfida è stata vinta.
Perché la versione televisiva di The Last of Us non solo è fedelissima all’opera originale e ne ripercorre le vicende dall’inizio alla fine con straordinario equilibrio e misura, andando a cambiare solo quegli elementi prettamente ludici che proprio non avrebbero funzionato in una trasposizione televisiva, ma riesce anche a migliorarla, approfondendo la storia di tutti i suoi personaggi e dando concretezza al suo mondo. Ma la cosa più importante di tutte è che non ammorbidisce in nessuna maniera la durezza originale, andando invece a sottolineare tutti gli aspetti più oscuri dei suoi protagonisti e di Joel, in particolare (e ovviamente).
E se siete fan del videogioco e ve lo state chiedendo, sì, tutte le linee di dialogo più importanti e significative del titolo originale ci sono, compresa quella che spiega (in maniera magistrale) come il protagonista sia stato da entrambe le parti della barricata tra prede e predatori.
Ma, sia chiaro, la serie non si limita a un certosino lavoro di ricalco, perché l’approccio narrativo di Mazin c’è e si avverte con chiarezza, e lo stile dello showrunner non viene messo in ombra dall’ingombrante presenza di Druckmann. The Last of Us è una serie che ha molti punti in comune con Chernobyl, ed emergono chiaramente sin dal suo primo episodio: è seria, è concreta, è asciutta, ha delle basi scientifiche approfondite e solide, è intimamente realistica e non disdegna un approccio quasi documentaristico nel racconto del suo mondo. È, in estrema sintesi, una serie matura per un pubblico maturo, che non si fa spaventare da un ritmo compassato e da una narrazione complessa, sfumata, strutturata e lontana anni luce da ogni stereotipo.
Ora potrei andare avanti a lungo parlandovi della bontà del cast, del bello stile delle regie, degli ottimi effetti, della splendida fotografia, della straordinaria colonna sonora, ma non lo farò, perché sono elementi così evidenti che pare quasi inutile starli a sottolineare qui.
Vi invito, invece, a guardare il suo primo episodio (finalmente disponibile per tutti) con la mente aperta e libera da ogni preconcetto, perché The Last of Us non è la serie che probabilmente vi aspettate.
I mostri ci sono ma sono pochi (e nel primo episodio, non si vedono proprio), l’azione ancora meno, la violenza è ridotta all’osso (ma quando c’è, fa davvero male) e la serie si prende tutto il tempo del mondo per parlare dell’unica cosa che conta davvero: l’umanità.
Fatevi del bene: guardatela.
Fatevi del male: guardatela.
The Last of Us è disponibile in Italia su Sky e in streaming solo su NOW, in contemporanea con gli USA.