SerieTV Recensioni

Copenhagen Cowboy piacerà ai fan di Refn. Ma solo a loro.

Pubblicato il 05 gennaio 2023 di Giulio Zoppello

Finalmente arriva su Netflix Copenhagen Cowboy, l’ultima fatica di Nicolas Winding Refn, che ci parla della sua Copenaghen, anzi no, o almeno non come uno si aspetterebbe, cuce un racconto allucinato, grottesco, metaforico e che strizza l’occhio all’assurdo e al paranormale.

Presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, questa serie è un prodotto di Refn al 100%, nel bene e nel male, conferma la sua tendenza a voler andare verso una radicalizzazione del suo stile e del suo modo di concepire il cinema, ma assieme le indica anche il rallentamento a livello di ricerca e innovazione semantica. Sicuramente troverà o grandi detrattori o entusiasti fan, ma difficilmente arriverà come un qualcosa di genuino, di artisticamente votato ad essere qualcosa di più di un’operazione contagiata da un narcisismo profondo e forse non del tutto ben riposto.

Una ragazza e un bordello a Copenaghen

In una periferia di Copenaghen diroccata a brutale, facciamo la conoscenza della piccola Miu (Angela Bundalovic) una ragazza venduta alla sorella di uno dei principali boss locali del racket della prostituzione, come una sorta di portafortuna per aiutare la donna, ormai di mezza età, ad avere una miracolosa gravidanza. Miu inizialmente viene trattata con tutti gli onori, benché tale fatto non possa ovviamente nascondere il fatto che si trova all’interno di uno dei più squallidi bordelli che si possono immaginare, con giovani ragazze letteralmente vendute dalla mattina alla sera ai clienti e costrette a vivere in uno scantinato. Imbruttite e totalmente prive di ogni possibile solidarietà, le ragazze sono incredibilmente ostili verso quella ragazza, che però in breve ovviamente perderà i suoi privilegi e si troverà come loro intenta a lottare per la propria sopravvivenza. Intanto, tra morti e inspiegabili presagi, qualcosa di soprannaturale e di anormale scivola nell’ombra di questo universo vivido e assolutamente folle.

Copenhagen Cowboy è senza ombra di dubbio la conferma che Nicolas Winding Refn è uno di quei registi che nel bene o nel male sa sempre come sorprenderti, come proporti qualcosa di totalmente atipico e diverso dalla norma, per quanto poi il rimanere fedele al suo credo, quello di stupire sempre comunque, rischia il più delle volte di portarlo verso un generale deragliamento.

Questa serie, presentata alla Biennale di Venezia lo scorso settembre, ha lasciato pubblico e critica abbastanza divisi sul risultato finale, ma concordi nell’affermare che a livello di stile, di potenza visiva e di capacità di ammaliare, il regista danese ha conservato una mano e una creatività abbastanza uniche nel suo genere. Tuttavia guardare questa serie pone infine una domanda tutt’altro che risolta: Refn ci è o ci fa?

Omaggiare sé stessi? E se sì perché?

Copenhagen Cowboy a detta dello stesso regista a Venezia, è una sorta di omaggio di Refn a se stesso, alla sua “rivoluzione” (o almeno lui la considera tale) con cui ha voluto riprendere stili, temi e soprattutto i vari personaggi che li abitavano: il Bronson di Tom Hardy, lo One Eye di Mads Mikkelsen in Valhalla Rising, il granito Ryan Gosling visto in Drive, il Tenente (Vithaya Pansringarm) di Only God Forgives, la Jesse di Elle Fanning nell’iconico The Neon Demon e i numerosi volti che aveva concepito nel suo Too Old to Die Young.

Appare tuttavia evidente come Copenhagen Cowboy debba moltissimo ad una miriade di riferimenti diversi: gli action, gli anime e i manga giapponesi, il neo-noir, una certa corrente indie e alternativa che ha rinnovato questo genere portandolo verso un percorso maggiormente intimista e allo stesso tempo slegato della classicità narrativa che ancora oggi detta legge in occidente.

Ma gioca un ruolo assolutamente primario la parte sonora, con effetti, musica elettronica e rumori di sottofondo che si sostituiscono spesso e volentieri ai dialoghi, caratterizzano le diverse atmosfere e la variazione di esse. Refn non l’ha detto, ma appare oltremodo evidente come abbia voluto riportare in vita quel qualcosa che ancora oggi rende il cinema di David Lynch, nonché una serie come Twin Peaks, qualcosa di unico ed irripetibile nel panorama artistico, quasi un’esperienza a se stante.

Quindi sì, sicuramente vale la pena guardare questa serie, ma solo se siete suoi fan, o se siete pronti ad accettare il fatto che non vi è una struttura narrativa, non come comunemente oggi ci aspettiamo dalla fruizione seriale, quanto piuttosto un gioco di prestigio, la volontà di incantare con le immagini e di perdersi dentro di esse. Abbonda naturalmente anche un black humor che Refn dissemina a piene mani, rendendo l’insieme a tratti a volte anche vagamente felliniano, caricaturale, assurdo. Incubo e sogno si sovrappongono, al punto che distinguerli diventa veramente arduo.

La differenza tra essere e fare

Tuttavia, permane il problema di una sorta di autocompiacimento orgoglioso con cui il cineasta, oggettivamente negli ultimi tempi abbastanza appiattitosi in un circolo vizioso, elogia se stesso ma è qualcosa fatto più di forma che di sostanza.

Copenhagen Cowboy alla fin fine comincia a girare in tondo, a cercare di stupire continuamente e nel farlo diventa prevedibile nella sua imprevedibilità, nei suoi personaggi assurdi, nella sua contaminazione di genere che rivendica un’identità indefinita ma alla fine più che altro confonde.

Certo, non si può negare che permangano elementi e contenuti sociali e volendo anche politici, come questa serie danese bene o male sia popolata soprattutto di stranieri, della volontà di darci uno spaccato sociale tra il desolante il distopico. Ma alla fin fine, la fruizione paga dazio anche ad una lunghezza esasperante: un’ora ad episodio ripetuta per sei volte di seguito è davvero troppo per un prodotto con queste caratteristiche. L’impressione finale è quella che forse Refn abbia già detto tutto quello che poteva dire, che sia come in cerca di un’inspirazione che negli anni si è diradata a mano a mano che il suo linguaggio cinematografico diventava sempre più raffinato, si americanizzava durante il suo percorso di scalata al successo.

Un successo che nella realtà, guardando i fatti, è stato più breve e meno spontaneo di quanto avrebbe potuto, e di cui questa serie rappresenta una sorta di manifestazione. Dal punto di vista semantico e anche stilistico è coerente con il suo già dichiarato intento di farne una summa della sua cinematografia. Tuttavia è un’operazione che si può fare quando si ha alle spalle un percorso molto più ricco, variegato e (lo si dica) anche più interessante e sorprendente. Alla fin fine, Copenhagen Cowboy rimane quindi soprattutto una serie che strizza l’occhio ai suoi fan e a loro soltanto, allontanando il suo percorso da ogni possibile occasione di un allargamento a chiunque non sia già parte del suo piccolo in club.