Cinema Recensioni

Non andare in sala per Babylon sarebbe un delitto

Pubblicato il 12 gennaio 2023 di Giulio Zoppello

Damien Chazelle torna e stupisce ancora una volta, lo fa con Babylon a quasi cinque anni di distanza da quel First Man che rimane uno dei migliori film degli ultimi anni, nonché uno dei più incompresi. Pare proprio che questo possa essere il suo destino di cineasta, specialmente a leggere i dati riguardanti gli incassi della sua ultima fatica, di questo gigantesco e potente omaggio al cinema in quanto organismo autosufficiente, meraviglia e dannazione. Probabilmente non è il suo film migliore, ha qualche piccola imperfezione, ma è senza ombra di dubbio il suo film più personale, più autentico. Babylon difficilmente avrà pure della critica l’elogio che merita, ormai l’Academy è totalmente schiava di logiche commerciali e politiche scevre da ogni meritocrazia, ma fatevi un favore: andate in sala, perché questo è un grande film da sala cinematografica.

Tre volti nella Hollywood degli anni ‘20

Hollywood, anni ‘20 il giovane è timido Manuel (Diego Calva) che sogna di poter calcare un set cinematografico, di far parte di qualcosa di più grande di lui, di toccare l’eternità. Per il momento invece è uno dei tanti tuttofare dell’ennesimo produttore cinematografico, impegnato a trasportare elefanti, alcolici e a fare da cerimoniere/pompiere per i party selvaggi che infiammavano la Hollywood che si dibatte tra gli ultimi istanti del muto e la rivoluzione portata dal sonoro.

Manuel ha a che fare con personaggi di ogni sorta, come Jack Conrad (Brad Pitt) grande star della MGM, l’idolo del momento che non si rende conto di essere ormai avviato verso il viale del tramonto, che si dibatte tra matrimoni falliti e un alcolismo schiavizzante. Ma ecco che sulla scena compare la giovane, spregiudicata e alquanto irruenta Nellie LaRoy (Margot Robbie), decisa a diventare una star del cinema. Armata di una grande espressività e di una sensualità assolutamente prorompente, assaggerà le luci della ribalta, si inoltrerà in quel mondo abitato da parassiti, maniaci del controllo, narcisisti patologici e criminali.

Assieme a lei anche Manuel comincerà a diventare qualcuno, salvo poi cominciare a chiedersi se piuttosto non sia diventato un qualcosa. Babylon è l’ennesima prova dell’incredibile talento e capacità da parte di Chazelle di dominare la materia che più ama: il cinema, inteso come narrazione trasversale, universale, come creatura da plasmare sapendo che però vivrà di una vita propria.

Se altri cineasti ultimamente ci hanno riportato agli anni ‘70, addirittura all’immediato dopo guerra, lui invece sceglie di andare quasi cent’anni fa, quando il cinema era nato da poco ma già era al centro dei nostri sogni. Ce ne mostra la potenzialità di penetrazione nel nostro immaginario ancora in fieri, inespressa almeno fino a quando non entrò in gioco il sonoro. Quell’invenzione trasformò le carriere di alcuni, distrusse completamente quelle di altri, di base sigillò un imprinting che Chazelle mostra in tutto la sua gloria, mentre contemporaneamente toglie ogni velo di sacralità dalla fabbrica dei sogni.

Il film sul cinema come mondo delle possibilità

Babylon ha tantissimo dentro, tanto dei grandi autori che hanno fatto la storia del cinema e ne hanno decretato la loro evoluzione. Appare evidente il volersi connettere da parte di Chazelle a Fellini, alla sua Dolce Vita, ma vi sono sprazzi anche di Blake Edwards e il suo immortale Hollywood Party, Scorsese e le sue giostre impazzite sull’umanità selvaggia, il cinema di Barry Levinson, Altman e Donen. Ma non mancano elementi estetici che si connettano a Keaton, Chaplin, all’Ed Wood di Burton. Babylon ci porta dentro le viscere di un animale selvaggio, sanguinoso, in cui non esiste sostanzialmente alcun limite all’illogicità che cerca di giustificare se stessa, in una sorta di gigantesco alveare impazzito in cui trovare un senso delle cose è tanto inutile quanto fuorviante.

Esiste solo il cinema, il grande idolo che tutti lì adorano perché tutti vorrebbero farsene abbracciare, farne parte, finire sulle copertine o essere amici di qualcuno che ci finisce, gioirne della luce riflessa.

Ma non è semplicemente arrampicamento sociale, non solo almeno, è la volontà di sublimare la nostra essenza, di diventare qualcosa di più di una mera umanità, di abbracciare in toto come vorrebbe il Manuel di un bravissimo Diego Calva, l’essenza della vita che vince sulla morte e sul tempo.

Il sogno, il sogno domina tutto, è dietro la cinepresa, dentro la cinepresa, davanti la cinepresa, è una grande promessa non mantenuta, quella che andando al cinema, per un paio d’ore, dimenticheremo gli affanni della nostra vita, la mediocrità della nostra esistenza, la totale assenza di un appagamento.

Ecco allora che Chazelle in queste tre ore e qualcosa che volano in un attimo, ti spiega perché amiamo o perlomeno amavamo fino a qualche tempo fa andare in sala, essere assieme agli altri e allo stesso tempo da soli, perderci ognuno a modo suo in un rito collettivo dentro quello schermo. Come in La La Land, come in Whiplash, vi è elogio e rifiuto, inferno e paradiso, il cliché e la sua negazione, morbosa fascinazione e condanna morale di tutto questo.

Il cinema è morto, il cinema è vivo

Risulta davvero impossibile decidere chi all’interno del cast sia il vero Re, il grande dominatore dell’iter diegetico. Perché se una Margot Robbie così scatenata, vulnerabile, insopportabile, adorabile e perfetto ritratto delle star che per caso nascono e muoiono non l’avevamo mai vista, non è che gli altri siano da meno.

Brad Pitt gigioneggia con un fare tenerissimo e potente, il suo Jack Conrad è ogni attore che è esistito ed esisterà, un nome falso ma dentro vi possiamo leggere il percorso dei tanti che sono diventati il desiderio di ogni donna, punto di riferimento per ogni ragazzo, invidia di ogni altro loro coetaneo.

Non ha talento, ha carisma, non ha un futuro, ha solo il presente. Mentre lo vediamo portare comunque a casa sempre il risultato a dispetto di quanto alcol abbia nelle vene o quanto sia triste, ne abbracciamo in toto un’esistenza fatta di solitudine, di una volontà di essere qualcosa di più di un volto da vendere.

In lui e in Margot Robbie, Chazelle mostra la duplicità dei suoi sentimenti verso la settimana arte, soprattutto il mondo che lo circonda, di cui fa parte il cinico ma incredibilmente coerente jazzista Sidney Palmer (Jovan Adepo), che vi entra e vi esce senza rimpianti.

Jean Smart, un irriconoscibile Tobey Maguire, Olivia Hamilton e Li Jun Li completano il cast che ci guida verso un finale prismatico, una mano disperata tesa dal regista verso il pubblico, quel pubblico che oggi le sale cinematografiche le sta uccidendo per restarsene sulle poltrone di casa, abbracciando una pigrizia che non è mai stata né è mai appartenuta ai torbidi e incoerenti protagonisti del sogno sul grande schermo.

La vera tragedia è che un film così grande, così portentoso a dispetto di 20 minuti di troppo, di più di qualche segmento che si poteva magari tagliare, in passato magari sarebbe stato fiducioso del recupero dei posteri. Ma oggi, con un futuro sempre più fatto di offerte vuote e superficiali a raffica, da pantagruelici e vuoti blockbusters, è facile che finirà come Nellie LaRoy, come Conrad e Manuel: nello sgabuzzino dei ricordi uccisi dal tempo.

Babylon arriverà nelle sale italiane il 19 gennaio.