Le avrete sentite anche voi le battute sull’algoritmo (dopo Boris 4, poi…) e Netflix che fa i film basandosi su parametri studiati a tavolino e target eccetera. Chiaramente non è sempre così – di recente abbiamo visto Blonde e Athena, tanto per citare un paio di uscite Netflix molto attese e “autoriali” – però spesso capita che Netflix acquisti prodotti abbastanza generici, quelli che un tempo sarebbero usciti direttamente in DVD (ma con budget decisamente inferiori), per schiaffarli in home page e dare ai suoi abbonati qualcosa di facile facile da vedersi una domenica pomeriggio in autunno, quando fuori piove e non hai voglia di alzarti dal divano.
Enter Troll, il nuovo film del norvegese Roar Uthaug (Tomb Raider, The Wave), un monster movie in cui, al posto di un gorilla gigante o una grossa lucertola, i protagonisti se la devono vedere con un troll delle leggende norvegesi, accidentalmente liberato da un’esplosione durante i lavori per la costruzione di un tunnel in una zona montana. Il bestione inizia dunque un lungo cammino, lasciandosi dietro una scia di distruzione e puntando, per ragioni misteriose, verso aree densamente popolate. Starà a una squadra improbabile, guidata da una paleontologa (Ine Marie Wilmann) figlia di un uomo ossessionato dall’esistenza dei troll, fermarlo prima che sia troppo tardi.
Troll rispetta tutti i dettami dei Kaiju Eiga, a partire dal tema ecologista di fondo – per la verità non troppo di fondo, ma sparato a tutto volume – via via fino ai protagonisti che empatizzano con il mostro, la ricerca di un suo punto debole, l’esercito che vorrebbe risolvere a cannonate e la scienza che giunge in soccorso. La creatura in sé è anche realizzata piuttosto bene – e qui si vede lo scarto tra una produzione Netflix, un blockbuster in miniatura, e i DTV di un tempo. E per fortuna, altrimenti la visione sarebbe stata davvero intollerabile, perché il mostro è anche l’unico punto a favore di Troll, per il resto un film banale e già visto, che si accontenta di fare il minimo indispensabile per portare a casa un risultato medio, seguendo strade già ampiamente solcate (c’è addirittura il bicchiere pieno d’acqua che segnala l’arrivo del mostro, rubato a Jurassic Park).
Troll è quel genere di film in cui i personaggi non sono realmente personaggi, ma funzioni narrative utili solo a far procedere la trama, che si comportano in maniera incoerente da una scena a un’altra, a seconda di quello che serve al film. Sarebbe molto facile fare battute sull’algoritmo, se non fosse che Roar Uthaug il film non solo se l’è diretto, ma lo ha concepito scrivendone il soggetto (la sceneggiatura è invece di Espen Aukan). Si tratta di un caso di autocensura? Ovvero: sapendo che il film era destinato a Netflix, Uthaug lo ha adattato al committente? Oppure davvero non avrebbe saputo farlo meglio di così?
Quel che è chiaro, comunque, è che Troll rappresenta il modo sbagliato di declinare a livello locale gli stilemi tipici del cinema americano (o anche giapponese, in questo caso). Perché non basta chiamare in causa una leggenda locale, se poi i tuoi personaggi sono scritti in tutto e per tutto come degli americani che parlano norvegese. Sarebbe stato molto più interessante se Uthaug e Aukan avessero lavorato più accuratamente in questo senso, come fatto da Gabriele Mainetti per Lo chiamavano Jeeg Robot. Un film di mostri americano non è uguale a un film di mostri giapponese, e un film di mostri norvegese non dovrebbe essere uguale a nessuno dei due.