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Il Pinocchio “molto italiano” di Guillermo del Toro (recensione senza spoiler)

Pubblicato il 11 dicembre 2022 di DocManhattan

Fa un giro enorme, il Pinocchio di Guillermo del Toro, per arrivare dove vuole arrivare. O, che è lo stesso, per portare il suo pubblico esattamente dove vuole condurlo. Ma quello che più conta, se state leggendo distrattamente queste righe per sapere se “si tratta del solito Pinocchio”, è che no, non si tratta affatto del solito Pinocchio.

PINOCCHIO CONTRO MUSSOLINI

Si parte dal fascismo, dalla guerra, dall’accettazione del lutto, e si arriva all’ineluttabile ciclo della vita, dopo aver parlato fugacemente anche di religione. E aver ricoperto di caccone la testa di Mussolini. Più o meno letteralmente. Ma prima di ogni altra cosa, dicevamo: “Un altro Pinocchio?” C’è infatti tutto un club di gatekeeper di Pinocchio, evidentemente, su Internet, perché ogni nuova trasposizione del libro di Collodi (un testo di quasi un secolo e mezzo fa) viene accolta a priori sui social da cori di “Ancora? Ma basta!”, che si tratti di una produzione per il piccolo, per il grande schermo o per entrambi, come in questo caso (il film ha avuto una distribuzione limitata in sala a inizio mese, per poi approdare su Netflix due giorni fa).

Ora, al di là del fatto che, vai a vedere, a scriverlo sono spesso gli stessi che si sono esaltati per la rimpatriata di tre diverse incarnazioni live action di Spider-Man nate nell’arco di soli quindici anni, il punto è che di storie universali e di personaggi conosciuti davvero in tutto il pianeta, non è che l’Italia abbondi. Pinocchio però ce l’abbiamo, e dovremmo esserne contenti. Tanto più quando un genio visionario come Guillermo del Toro si mette in testa di tirarne fuori due ore di una stop-motion semplicemente pazzesca.

Ma questo Pinocchio diretto da Guillermo del Toro e Mark Gustafson, che del Toro ha anche co-sceneggiato e prodotto, non è solo visivamente delizioso: è forte di una storia avvincente e, per dirla alla Stanis La Rochelle, “molto italiana”, per quanto sia evidente l’omaggio anche a una certa opera giapponese…

ASTRO PINOCCHIO

Del Toro, infatti, prende il via da una delle rivisitazioni moderne più fortunate di Pinocchio, l’Atom (in Occidente Astro Boy) di Osamu Tezuka: come nella celebre opera del “dio dei manga”, anche in questo film il burattino Pinocchio nasce come surrogato di un bambino perso dal suo creatore. Ma Geppetto è pur sempre Geppetto, e non quello stronzo senza cuore del dottor Tenma: così, invece di venderlo a un circo, a quel ciocco di pino con il naso allungabile riserva tutto il suo amore e le sue premure.

Nel gioco del regista messicano, spariscono la fata dai capelli turchini, il gatto e la volpe, Mangiafuoco, soppiantati da personaggi nuovi che ne riprendono questa o quella caratteristica, come uno spirito dei boschi, il Conte Volpe o una creatura dell’aldilà sulla cui esatta natura sorvoleremo per non rovinarvi il piacere di scoprirlo da voi.

Cambiano anche Lucignolo, il suo ruolo e la sua natura, in un’Italia alle prese con la dittatura, la sua propaganda e la guerra. E proprio il modo in cui, nel pieno rispetto dell’originale, del Toro ha modificato la storia e i suoi protagonisti, ti spinge a seguire con attenzione le quasi due ore di pellicola. Dopo un po’ smetti di ricordare, per quanto fluidamente ti scorre davanti agli occhi il tutto, che alla fine si tratta pur sempre di una serie di foto scattate a dei pupazzi, e ti godi le sorprese a ogni curva del percorso.

IL LABIRINTO DI PINOCCHIO

Tutto si incastra come deve, come gli arti del burattino bugiardo: le bombe, la caricatura di un dittatore già caricatura di suo, il dolore, il rancore e infine la consapevolezza che non puoi fare nulla per impedire a vita e morte di continuare a inseguirsi nella stessa ruota da criceti. Bellissimo il modo in cui viene trattato un tema classico di tutti i Pinocchio, l’accettazione del diverso: la domanda che il burattino rivolge al crocifisso in chiesa ti esplode in testa più degli ordigni che piovono dal cielo in vari momenti del film. È Pinocchio, e allo stesso tempo è Nightcrawler degli X-Men di Dio ama, l’uomo uccide, o un qualsiasi reietto immaginario che con due parole mette in luce l’ipocrisia dei bigotti.

Dopo la versione di Zemeckis, inevitabilmente partita e arrivata con il freno a mano, in quanto declinazione live action di un classico animato Disney, questa del regista di Pacific Rim, Hellboy e La forma dell’acqua (ma il pensiero, per una questione di affinità tematiche, qui va soprattutto a Il labirinto del fauno) i freni li lascia direttamente a casa, per poi precipitarsi a rotta di collo per la sua strada.

MELTING PINOCCHIO

Malinconico come il Pinocchio televisivo di Luigi Comencini, allegro come l’anime di Nippon Animation con la sua sigla “Bambino Pinocchio” o il classico Disney, originale e dove serve spietato, a un passo dall’esistenzialismo come lo struggente e sfigatissimo Pinocchio della Tatsunoko… Ci sono ovviamente i riverberi di tante incarnazioni passate del personaggio, ma la cosa più importante è il taglio estremamente originale e particolarissimo del tutto. Tanto che al di là del significato più classico della storia (no, mentire e bighellonare non ti risolve i problemi), qui se ne aggiungono ad essa tanti altri.

E se nel film non c’è il Paese dei Balocchi, è perché qui non serviva: l’Italia del ventennio, come ogni paese pieno di scritte sull’obbedienza su ogni muro, era piena già di suo di asinelli pronti a finire in un dirupo dietro a un pazzo.