Davvero difficile in un anno così abbondante decidere quali serie tv siano state le dieci migliori, quali meritano la corona d’alloro. Certo, alcuni titoli devono esserci per forza, altri invece sono più legati al gusto personale, ma il fatto che tale
incertezza sia così ovvia, è l’ottimo segnale di una qualità che è sempre più palese nel panorama delle piattaforme. Quelli che seguono sono dieci titoli a cui chiunque potrebbe sostituire altri dieci, ma sono senza ombra di dubbio prodotti che per audacia, profondità, estetica e qualità dei contenuti hanno conosciuto un successo di pubblico e critica universale, che è valso la pena vedere.
Impossibile non cominciare questa classifica senza omaggiare l’atto finale delle avventure di Gene Takavic (aka Saul Goodman/Jimmy McGill), che avevamo conosciuto in quel capolavoro che fu Breaking Bad e di cui questa serie dal 2016 è parsa più che una continuazione, un ramo parallelo.
Semplicemente straordinaria per scrittura, per caratterizzazione dei personaggi, per estetica (il bianco e nero, i colori, la fotografia ipnotica), Better Call Saul grazie a Vince Gilligan e Peter Gould è andata oltre la capostipite, ci ha guidato in modo assolutamente geniale verso un finale che in realtà già conoscevamo.
Ma come diceva Giorgio Faletti, non conta l’arrivo ma ciò che provi mentre corri e correre assieme dentro questo universo crime, attraversato da black humor, malinconia e da un’ambiguità morale fantastica è stato unico. Probabilmente nessuna serie recente è riuscita a descrivere in modo tanto approfondito, con personaggi talmente coinvolgenti il mondo del crimine. Un gioiello che ha sorpreso di puntata in puntata, con colpi di scena ed evoluzioni da indicare come un modello da imitare per chiunque si affacci a questo genere in futuro.
Al netto delle polemiche, delle controversie, non si può negare che Dahmer si sia conquistata di diritto la sua posizione nella Top Ten, in virtù non soltanto di un’interpretazione da parte di Evan Peters semplicemente ipnotica per visceralità, impegno e volontà nel farci capire chi era veramente il mostro di Milwaukee. Dahmer infatti è stata soprattutto un viaggio dentro ciò che ha creato quel mostro, le contraddizioni della società americana, ha distrutto di puntata in puntata i suoi eterni pilastri fatti di famiglia, concetto di comunità, religione, un paese che in quegli anni ancora più che oggi era animato da un razzismo, classismo e intolleranza semplicemente terrificanti, con una polizia indecente e un sensazionalismo aberrante. Disturbante, violentissima in modo trasversale, Dahmer è uno dei migliori prodotti Crime che si sono visti negli ultimi anni, un dito puntato contro il bigottismo e l’ipocrisia dell’America, quella polvere da sparo che innesca esplosioni a getto continuo come quelle di Feffrey Dahmer, senza ombra di dubbio uno dei serial killer più inquietanti che siano mai esistiti.
I dati non sono stati particolarmente incoraggianti, ed è un vero peccato, perché a conti fatti Andor era forse l’unica serie di Star Wars che non meritava di essere maltrattata in modo così feroce dal pubblico, piuttosto sarebbe dovuto toccare ad altre che non ne avevano né la profondità, né l’originalità né tantomeno la qualità di scrittura. Andor è connessa fortemente a un po’ tutto l’universo di Star Wars ma in particolare a Rogue One, a quello che molti indicano come miglior prodotto del franchise dai tempi della saga originale. Cupo, molto curato a livello di sceneggiatura e soprattutto di profondità dei personaggi, è un grande omaggio al genere spionistico degli anni ‘70 ed ‘80, si connette a classici come I Tre Giorni del Condor o Scorpio. Allo stesso tempo innesta in modo molto più deciso rispetto al passato l’elemento del noir con tutte le sue sfumature, all’interno dell’universo creato a suo tempo da George Lucas. Il tutto a favore di lui, di Diego Luna, capace di tratteggiare in modo perfetto un mix affascinante di luci ed ombre dentro un antieroe armato di una vulnerabilità assolutamente inedita nella galassia.
James Gunn ha colpito ancora, lo ha fatto in tutto il suo splendore assieme a John Cena, ad oggi probabilmente il miglior interprete sul piccolo e grande schermo nell’universo dei cinecomic, quello più coerente con il suo personaggio e con le finalità di un prodotto di intrattenimento semplicemente perfetto. Peacemaker racchiude in sé tutto l’amore che Gunn ha per i fumetti, per la pop culture e per la realtà culturale degli anni ‘80, si erge forte di una magnificenza strutturata sul doppio binario dell’elogio e della decostruzione, dell’ironia e della malinconia per un’epoca che non c’è più.
Violento, cinico, grottesco, esilarante, assolutamente distante dal concetto di politically correct, Peacemaker ci mostra il più sfigato giustiziere di sempre, costretto a tornare in pista per fronteggiare una strana invasione aliena, mentre deve fare i conti con un padre nazista, una nuova squadra assolutamente improbabile ed il suo passato. Tra i vari prodotti usciti quest’anno connessi al mondo dei fumetti, questo è senza ombra di dubbio il migliore, di gran lunga il più coerente, quello della qualità anche narrativa più elevata, con un cast corale guidato in modo perfetto e un sapore vintage calibrato al posto giusto.
Se la Palma di miglior serie dell’anno dovesse finire nelle mani di Dan Erickson e Ben Stiller, le menti dietro il successo di Scissione, nessuno avrebbe da ridire. Perché questa serie, con un cast straordinario, una dimensione estetica meravigliosa e una regia da antologia, ha portato il concetto di distopia ad un livello mai visto. La Lumon Industries, sorta di gigantesco alveare capitalista con quei corridoi asettici, quel separare i ricordi della vita personale da quella professionale, si stacca dalla mera nemesi della narrazione televisiva, diventa a mano a mano che si va avanti, il motore di una sorta di quadro realista e angoscioso del nostro presente. Scissione è un prodotto di intrattenimento fortissimamente autoriale, è la sua più grande forza, il suo più grande pregio, quello che la rende un universo perfettamente rappresentativo del nostro presente. Il presente di cui si parla è quello di persone che sono ridotte a numeri, in cui la libertà è stata soffocata e la nostra stessa identità nella sua essenza più pura viene distrutta il giorno dopo giorno. Il capitalismo ha vinto, la tecnologia è una nuova catena e questa serie ce lo mostra in una narrativa appassionante, perfetta per calibratura e per la capacità di farci legare ai suoi personaggi. Da Platone e la sua caverna alle teorie di Marx e di Ortega y Gasset, questa serie vive anche di un legame con la filosofia e la sociologia, qualcosa di più unico che raro al giorno d’oggi.
La cucina ormai da due decenni è la nuova arena in cui la narrazione moderna ha creato eroi, show televisivi, reality, un mondo che ha poco da invidiare all’arte, persino allo sport. Non si sarà un tantino esagerato? The Bear è la risposta a questa domanda, una serie che nessuno si aspettava, un fulmine a ciel sereno che ci porta dentro un dramma intimo e allo stesso tempo universale, cuce dimensione micro e macro con una grazia più unica che rara, con un’energia ipnotica in virtù di una volontà di essere immersivi che ha pochi pari nel panorama attuale. Jeremy White è autore di una performance che gli permette di poter fregiarsi del titolo di personaggio televisivo dell’anno, uno chef tanto perfezionista e talentuoso quanto inseguito da fantasmi, da un mondo professionale tossico, dittatoriale, che ci viene mostrato senza alcuna censura, senza alcun limite e abbellimento. Chicago, i suoi panini “italiani” che da noi ti verrebbero tirati in testa, diventa il centro di una volontà di rivalsa, di una lotta contro il dolore e i sensi di colpa, in cui la retorica, l’epica e il successo, lo stesso sogno americano sono messi completamente da parte.
The Bear vive di metafore narrative e visiva interessantissime, di una composizione interna a livello di personaggi ed interazioni in cui il realismo domina, qualcosa che è troppo a lungo è stato messo da parte.
Taylor Sheridan è senza ombra di dubbio una delle migliori menti creative cinematografiche del nostro tempo, uno dei migliori showrunner e sceneggiatori sulla piazza e Yellowstone il miglior prodotto che abbia mai partorito la sua mente, quella di uno che se certe cose non fossero andate in una certa direzione, oggi probabilmente non sarebbe diverso dai cowboy di cui ha popolato questa serie, tra le più intriganti dell’ultimo decennio. Kevin Costner, Kelly Reilly, Cole Hauser e Wes Bentley guidano le fila di questo incrocio tra un dramma shakespeariano e una sorta di immersione dentro i valori e il mondo dell’America che ancora oggi sta in sella ad un cavallo e crede al mito della Frontiera.
Questa quinta stagione spazza via ogni dubbio riguardo la qualità della scrittura, con la perfezione delle vicende narrate e la capacità di non annoiare mai. Cinico, violento, pessimista per quello che riguarda la capacità dell’America di andare oltre una visione egoistica della società, Yellowstone è anche il miglior prodotto mai fatto sulla cultura del cavallo, sui ranch, sull’essenza dell’America come terra fatta di competizione spietata e di un concetto di memoria che è una palla al piede costante.
The Boys vi è piaciuta? Allora The Boys Diabolical, serie animata anch’essa disponibile su Prime Video non può che esservi piaciuta ancora di più. Si tratta di un viaggio semplicemente meraviglioso dentro il concetto di animazione, messa al servizio della narrazione concepita da Garth Ennis, di questa totale tabula rasa verso il concetto di supereroe. Otto episodi, ognuno dei quali diverso per connessione ad una diversa scuola d’animazione, di pensiero, si spazia dal Giappone alla Francia, dai diversi stili dell’America nelle diverse epoche, connettendosi a più autori e più stili. Si ride, ci si commuove, ci si dispera, si rimane inorriditi e allo stesso tempo si abbraccia una serie capace di parlarci dei supereroi in modo anche più radicalmente angosciante di quanto l’originale abbia fatto. Senza ombra di dubbio uno dei prodotti televisivi più interessanti dell’anno, dei più coraggiosi e dei più folli, ma nel senso buono del termine. Ovviamente diventa anche strumento attraverso il quale parlarci della drammaticità dell’epoca moderna, della religione del sensazionalismo, della mancanza di libertà dell’individuo e della tecnologia che ci sta letteralmente schiavizzando.
Davvero difficile scegliere solo una serie coreana da mettere in questo elenco, ma non è possibile non nominare Pachinko, di Soo Hugh, tratta dal romanzo di Min Jin Lee. Seguendo le peripezie di una famiglia tra Corea, Giappone e Stati Uniti partendo dalla giovane madre single Sunja, Pachinko ci mostra il concetto di melodramma sotto una luce moderna, innovativa, incredibile per profondità e capacità di far simpatizzare con i protagonisti. Lo stesso concerto di melodramma in realtà è assolutamente sbagliato, perché qui vi è semplicemente la parte storica, si getta la luce sulla migrazione coreana, sulla diaspora di un intero continente in giro per il mondo, dagli anni ‘30 del 900 all’epoca moderna. Tra tutte quelle in elenco è probabilmente quella della scrittura più ambiziosa e difficile, ma anche la più riuscita, epica ma senza esagerare, quanto piuttosto intima nel modo più toccante e aggraziato. Meraviglioso anche dal punto di vista estetico, senza però strafare, rimane un grande racconto di vita e sentimenti, l’ennesima prova dello straordinario rinnovamento che la settima arte e il piccolo schermo stanno avendo da un paese che, ad oggi, è senza ombra di dubbio l’unico che riesca a portare avanti il concetto di arte narrativa visiva in modo vero e autentico.
Euphoria può tranquillamente rivendicare lo status di serie TV simbolo della Generazione Z, lo fa con questa seconda stagione, arrivata a tre anni di distanza dalla prima, ma capace di spingersi addirittura oltre nella rappresentazione di quello che è essere giovani al giorno d’oggi. Il quadro complessivo che ci viene dato è quello di un mondo ributtante, pericolosissimo, di difficile definizione, con una gioventù inseguita da problematiche assolutamente inedite, che la separano completamente da chi era giovane nei decenni precedenti. Bullismo, tossicodipendenza, incertezza sul proprio futuro, sulla propria identità sessuale, il culto del successo e della popolarità che assilla e assedia, la violenza che diventa a poco a poco l’unica vera religione. Solo recentemente parlare di questa età è diventato qualcosa di diverso da un esercizio retorico e ripetitivo, dalla glorificazione di un’età che invece questa serie, in modo magnifico, ci ha ricordato essere incredibilmente problematica, sovente tragica. I social media sono un altro strumento di emarginazione, di dolore e carburante della paura che riguarda noi stessi e chi ci circonda. Zendaya guida un cast di future Star che demoliscono il concetto di narrazione teen per come la conoscevamo, illuminano con una narrazione potentissima un quadro generale ributtante e drammatico.