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Emancipation non mantiene le promesse

Pubblicato il 08 dicembre 2022 di Giulio Zoppello

Will Smith torna caricato a mille, lo fa con un film a metà tra realismo storico e finzione, ispirato alla vera storia di uno degli afroamericani più famosi dell’Ottocento, capace di diventare simbolo di un’intera etnia che cercava il riscatto da secoli di schiavitù ed oppressione. Emancipation è un film molto potente, forte, che cerca in tutti i modi di darci un’immagine coerente e profonda del dramma che vissero gli afroamericani, gli schiavi costretti all’imbruttimento nelle piantagioni della Confederazione. A metà tra survival, melodramma, film civile e bellico, Emancipation tuttavia non riesce a fare il salto di qualità, e diventa una bella occasione sprecata.

Un’odissea incredibile ai tempi della Guerra di Secessione

Stiamo parlando di qualcosa di insufficiente? Sì. Ad essere onesti sì, e il motivo principale sta nella sceneggiatura di Bill Collage, che narra la vera vicenda di Gordon, detto Peter il Fustigato, che finì tra le pagine dell’Harper’s Weekly con una serie di foto che fecero la Storia dell’America.

Purtroppo però questo è un caso in cui la finzione esagera con una netta malagrazia. Gordon (un Will Smith che ce la mette davvero tutta) era stato per tutta la vita martoriato, angariato, trattato in modo bestiale, così come milioni di altri schiavi in quel Sud fatto di un’autoproclamatasi aristocrazia, buone maniere e violenza. Fuggito nel 1863, dopo una maratona rocambolesca e terribile tra le Everglades della Louisiana, si sarebbe infine unito all’esercito unionista, servendo con onore come decine di migliaia di altri afroamericani per difendere la propria dignità e la propria libertà.

Antoine Fuqua si è preso il gravoso compito di cercare di parlarci di questa storia incredibile, inserendo il tutto all’interno di un dramma per quanto più possibile rappresentativo di quel conflitto, di quegli anni, di ciò che significavano per ogni afroamericano.

Emancipation lo fa sposando fin dall’inizio una visione assolutamente manichea, dove l’uomo bianco è semplicemente un oppressore, al massimo un liberatore paternalista e razzista. Loro, gli schiavi provenienti da ogni possibile continente ed isola, sono trattati peggio degli animali, con un odio che aumenta mentre di giorno in giorno, mentre si palesa sempre più nettamente la sconfitta della Confederazione. Ma la fine di quello stile di vita che vedeva ogni uomo bianco in possesso di un diritto di vita e di morte su chiunque altro non arriverà tanto presto, lo sappiamo, e bene o male Emancipation cerca anche di parlarci di come il Sud, l’uomo bianco, non abbia mai voluto veramente farne a meno.

Gordon affronta ogni tipo di dolore, privazione fatica, soffre la fame e la sete, inseguito da un aguzzino a cui Ben Foster, non nuovo a personaggi del genere, dona comunque un sinistro fascino, una magnetica capacità di essere il simbolo di uno spirito che da quei tempi si è trasferito all’America di oggi.

Un film senza un vero centro e identità

Emancipation comincia con la separazione di Gordon dal resto della famiglia, quando questi viene venduto dal suo padrone, il ricco capitano John Lyons (Jayson Warner Smith) per morire di fatica mentre costruisce la ferrovia che dovrà sostenere le cannoniere atte a fermare la flotta e l’esercito nordista.

In un clima di orrore e terrore continuo, Gordon con alcuni altri disperati però riesce a fuggire dai suoi feroci guardiani, con l’obiettivo di riunirsi a Baton Rouge con l’esercito nordista e tornare alla piantagione per liberare la sua famiglia. Tuttavia sulle sue tracce il sadico e infaticabile Fassel (Ben Foster), cacciatore di neri animato da un razzismo ideologico che Emancipation spinge fino al punto di renderlo così massimalista da essere irreale, pur con la sua coerenza.

La bellissima fotografia di Robert Richardson è perfettamente coerente con l’intento finale di mostrarci un’odissea che richiama alla memoria The Revenant di Innaritu, con la sua brutalità, una natura ostile e ferrale, non meno degli uomini che lì dentro spargono l’uno il sangue dell’altro.

La violenza diventa però non uno strumento ma un fine, lo fa quasi dal principio, cercando a tutti i costi l’effetto, l’impressione fine a sé stessa, diventando di volta in volta sempre più ripetitiva, sempre meno giustificata e utile all’insieme. Poi da metà in poi Emancipation cambia completamente e diventa una sorta di remake di Ritorno a Cold Mountain, con tanto di metafore, citazioni, un tono melodrammatico e sovente retorico che affossa il realismo (o meglio iperrealismo) che aveva fino a quel momento dominato l’insieme. Per quanto contraddistinto da ottime scene di massa e da una regia incredibilmente incisiva, che sa rendere la natura ostile della Louisiana quasi un protagonista aggiunto, Will Smith si muove all’interno di un mondo incredibilmente scarno come caratterizzazione generale, come contenuti che sanno di già visto, già sentito e già sperimentato innumerevoli volte. Il che poi è il motivo principale per cui più che un solo film, questo pare due film uniti assieme, senza che vi sia molto altro in comune se non l’ambientazione storica. Il film cerca quindi di essere più cose contemporaneamente, ma lo fa senza grazia, anche a causa di un finale che lascia da parte ogni moderazione e vira verso una retorica tanto comprensibile quanto però irritante.

Troppa ideologia fa male al cinema

Ad un certo punto si è anche portati a chiederci quanto il film di Fuqua sia anche cinema civile, dal momento che l’America di oggi si dibatte in un dramma che non è poi tanto dissimile da quello di ieri, anzi come capitato a Notizie dal Mondo, ci illumina su un razzismo che era parte essenziale di una costruzione sociale ed economica che neppure la fine della Guerra di Secessione riuscì ad eliminare del tutto.

Smith si cala perfettamente nel ruolo, questo non si può negare, e trasmette credibilità, emozioni; tuttavia alla fine anche il suo personaggio comincia a prendere una deriva retorica, patriottica e politica che rende la componente semantica di questo film, forzata e poco armonica.

I dialoghi non sono particolarmente curati, inseguono un obiettivo che è del resto soprattutto ideologico, e di conseguenza mette in secondo piano l’armonia cinematografica, rende soprattutto le varie nemesi sostanzialmente tutte uguali. Anche il realismo storico alla fine cede il passo alla necessità di parlarci del Peccato Originale, uno dei tanti in realtà, degli Stati Uniti d’America.

Difficile capire se Will Smith potrà rilanciarsi con questo film, per ora la critica internazionale è molto severa, ma con pieno merito, perché una tragedia come quella dello schiavismo, il contributo che gli afroamericani dettero alla causa dell’Unione, meritava qualcosa di meglio di questo film.

Forse lo ha già avuto in passato ciò che serviva ad essere onesti: basta pensare a Glory di Edward Zwick, a cui accompagnare anche Amistad di Spielberg.
La verità è che parlare dello schiavismo non è facile, non senza scadere nel già visto e già sentito, ed è qualcosa che non si può superare semplicemente aumentando il tasso di violenza o la natura estetica dell’insieme. Occorre originalità di sguardo e di scrittura, serve avere delle idee sicuramente più chiare di quelle che Emancipation mostra di non avere, quando si affida completamente al protagonista e si accontenta.