Avatar, la via dell’acqua: be like water, diceva Bruce James Lee Cameron (no spoiler)

Avatar, la via dell’acqua: be like water, diceva Bruce James Lee Cameron (no spoiler)

Di DocManhattan

La via dell’acqua, in più di un senso, perché ieri all’uscita dal cinema diluviava. Fuori, ma pure dentro la mia testa, dove si affastellavano pensieri vari e contrastanti su quanto appena visto. La risposta alla prima domanda che mi ero portato sottobraccio all’ingresso, mentre guardavo con sospetto gli occhialini che mi ero ripromesso di non inforcare mai più in un cinema è un fermo Sì, James Cameron ha di nuovo alzato l’asticella. Ha nuovamente mostrato a tutti che lui non si limita a girare un film, ma a dare ogni volta un nuovo significato alla parola spettacolo.

Avatar: la via dell’acqua è visivamente magnifico: come i suoi protagonisti, lo spettatore si immerge in un mondo nuovo, in compagnia di stupore e meraviglia. Il 3D non solo non toglie nulla, neanche nelle scene più buie, ma aggiunge davvero la sensazione di essere lì, come una finestra che ti consente di affacciarti su un altrove azzurro, diverso, bellissimo. Decine di film brutti con un 3D posticcio aggiunto all’ultimo minuto, arrivati proprio sulla scia del successo di Avatar, non tolgono infatti che qualcosa studiato apposta da chi sa farlo, in uno scenario perfetto, gioca in tutto un altro campionato.

Avatar la via dell-acqua recensione

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Il problema è però che “essere lì” non ha voluto dire, per me, emozionarmi per quello a cui stavo assistendo. La trama del primo Avatar sarà pure stata sempliciotta e aromatizzata al già visto, ma era funzionale: serviva a introdurre un mondo da esplorare e i suoi personaggi. Il rimbalzo ciobiniano tra gli esseri umani e i loro avatar creava quel minimo sindacale di tensione, in un lussureggiante teatro sci-fi pieno di macchine di morte e animali da incubo, che ti portava fino allo scontro finale con quel tizio sfregiato e scartato ai provini per i villanzoni della WWE. Ma fin lì ci arrivavi: per la novità del tutto, ma pure perché le storie semplici hanno il superpotere di essere per tutti.

In Avatar: La via dell’acqua non succede, perché la storia di Jake Sully, ormai un Na’vi a tempo pieno, di Neytirie e del loro nucleo familiare arrotondato da un miracolo di cui nessuno spiega le origini (materiale per il prossimo sequel, si presume) non sembra decollare davvero mai. Neanche quando si tira in ballo proprio la famiglia con scene in cui il Toretto di Vin Diesel si sarebbe messo una mano sul cuore, si mette in pericolo la nuova generazione, insomma si fanno e dicono e succedono cose che dovrebbero far breccia nella sensibilità di chi le paure da genitore le vive a ritmo quotidiano.

Avatar la via dell-acqua recensione

UN AMICO DA SALVARE

A una prima ora praticamente introduttiva segue il contatto con la nuova ambientazione acquatica, che come in un livello a tema di un videogioco declina quanto già visto prima nelle foreste, ma adattandolo al contesto. Ci sono i Na’vi naviganti (risate registrate), i neozelandesi di Pandora, con le loro mani buffe e modi, tatuaggi e haka dei Maori; i loro draghetti sono anfibi, il loro albero delle anime subacqueo. Nel terzo film probabilmente il tema sarà il fuoco, o il ghiaccio, come in un mondo di Super Mario.

È l’ultima parte, dopo un inatteso mini-remake di Free Willy con tanto di capriole marine al rallentatore, a dare una scossa alla vicenda, con delle sequenze tanto spettacolari da schiaffeggiare simbolicamente con i propri attributi praticamente qualsiasi altra cosa sia passata sul grande schermo dopo, beh, l’uscita del primo Avatar. È lo spettacolo di cui si parlava prima, ma di natura leggermente diversa: non la contemplazione del mondo sottomarino luminoso, onirico e placidamente alieno, ma la devastazione, la ferocia della battaglia, il momento galvanizzante della riscossa.

E allora sei lì che stai per dire Ah, cazzo, ora sì!, ma la frase ti resta appesa alle corde vocali perché il tutto è purtroppo condito da quello che mia moglie ha efficacemente definito all’uscita dalla sala come una declinazione pandoriana delle dinamiche di Cobra Kai. Quelle cose delle nuove generazioni incerte sul da farsi e sul proprio futuro, ondivaghe nei loro sentimenti, un giorno qui, un giorno nell’altro dojo di All Valley. Un’idea che, per come se la giocano Cameron e i suoi, anziché dare spessore a quel biondo mini-Tarzan genera solo file di sopracciglia inarcate e sospirati, rassegnati Vabbè.

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IO SONO IO, E VOI NON SIETE UN CAMERON

E mentre ciò accade, James Cameron fa quello che fanno molti quasi-settantenni e veste il mantello della hubris. Sa di essere il numero uno, sa che nessun altro ha uno score come il suo a Hollywood, sia dal punto di vista del mero successo commerciale delle sue pellicole che dei decisi passi in avanti che praticamente ciascuna di esse ha fatto compiere all’industria in un modo o nell’altro, e qui ci tiene a ricordarlo.

In quella passerella a un certo punto talmente palese da diventare un curriculum sbandierato in faccia, Jim ti ricorda quello che ha fatto, come lo ha fatto, e quanto quei film lì abbiano spaccato. Sono stato lontano tredici anni, ti dice tutto quel viaggio sul viale dei ricordi di transatlantici affondati, bambine del futuro scivolate in un canale di scarico, fuoco e catene da terminatori diventati buoni, ma ora sono di nuovo qui, stronzettə. E faccio quello che mi pare.

IO SONO IO, E VOI NON SIETE UN CAMERON

MAGARI PURE SENZA PARAGONI CON I FILM ANIMATI DISNEY

Al che si potrebbe concludere con un lapidario “alla fine meglio la storia del primo”, e ci sarà di sicuro chi là fuori, nel mondo, sarà convinto che parlare di un passaggio da Pocahontas a Oceania basti a descrivere Avatar: La via dell’acqua per quello che è. Ma come già successo per il primo film, la storia non è tutto. Il cinema è pur sempre, per definizione, immagini in movimento. Se qualcuno ti presenta – di nuovo – quelle immagini in un modo mai visto, dando un calcio agli standard e creandone al contempo di nuovi, non è esattamente un aspetto secondario. Non è il solito “brutto film, ma bella la fotografia”.

Ho rivisto il primo Avatar giusto qualche giorno fa, per ripassarne la trama e, più che altro, tornare a respirare un po’ di Pandora, nel periodo dei pandori. Ed è ancora una fiera della CGI di livello altissimo, in grado di dar la paga a quasi tutto quello che è uscito dopo. Una prova vinta contro il tempo in un settore, quello della grafica-al-computer, che invecchia con la velocità di una farfalla. Qui la cosa si ripete, ma un paio di tacche più in alto. E non parliamo di una mezz’ora di effetti speciali, ma di un intero film di tre ore che è tutto così. Per tecnica, scelte, maestria, in una parola visione.

Avatar 2 recensione

Il che ci riporta inevitabilmente al concetto iniziale, quello di spettacolo. Basta uno spettacolo sbalorditivo a giustificare 192 minuti su una poltroncina al buio di una sala, circondati da sconosciuti? Se lo chiedete a me, vi rispondo solo “Perché diavolo non c’è una sala Imax a meno di tanticento chilometri da dove vivo? Ché lì dev’essere la fine del mondo”. Se invece per voi il cinema è principalmente coinvolgimento emotivo prima e più che sensoriale, sono i personaggi e le storie che restano dentro, beh, magari con il livello di fuoco o quello di ghiaccio andrà meglio.

 

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