Tra i tanti film che Steven Spielberg ci ha offerto in una carriera unica per incisività, caratura e varietà, con ogni probabilità Amistad risulta ancora oggi quello maggiormente sottovalutato, forse perché uscito in un momento sbagliato, forse perché all’epoca era ancora scomodo il tema.
Di certo un film meno accessibile rispetto ad altri capolavori che il regista americano ci aveva offerto in quel decennio. Oggi, a 25 anni di distanza, bisogna ammettere che nella realtà, quel film è di gran lunga superiore a quasi la totalità di quelli che hanno cercato di parlarci della tragedia dello schiavismo, sovente scadendo nel déjà vu, nel sentimentalismo o ancor peggio nel paternalismo, senza riuscire a rendere nella sua dimensione globale una delle tragedie più terrificanti della storia dell’umanità.
Come aveva già fatto in Schindler’s List, come avrebbe fatto L’anno dopo in Salvate il soldato Ryan o in Il Ponte delle Spie, Spielberg decise di porsi come una sorta di via di mezzo tra una rievocazione storica fedele ed una narrazione che riuscisse ad essere incisiva livello semantico e soprattutto tematico.
La fonte primaria era il romanzo storico “la rivolta della Amistad” di Barbara Chase-Riboud, inerente uno dei casi giudiziari più famosi dell’800 americano, quello che portò una cinquantina di schiavi africani appartenenti quasi tutti all’etnia mendi, a rivoltarsi contro l’equipaggio di una nave negriera spagnola e a tentare una fuga disperata verso la propria madrepatria.
Intercettati ed infine arrestati dalla flotta statunitense, diventarono cardine di un contenzioso che divise ancora di più Nord e Sud dell’Unione, e procurò un sacco di grattacapi alla presidenza del debole Van Buren che verso il Regno di Spagna e i paesi schiavisti del Sud America voleva continuare ad avere rapporti proficui. Steven Spielberg decise di puntare dritto alla gola dello spettatore per così dire, confezionò un film durissimo, drammatico, eppure ammantato di una profondissima umanità perché costruito attorno alla necessità di dialogo e di confronto tra esseri umani provenienti da mondi completamente diversi.
Ma soprattutto (e forse questo fu il motivo per cui l’Academy e la critica americana in generale furono positivi ma senza entusiasmo) puntò decisamente il dito contro il peccato originale del suo paese in modo arguto, approfondito e soprattutto culturalmente molto ben argomentato.
E si sa, agli americani non piace mai che gli si faccia la predica, se non quando essa è mascherata da un elogio finale, cosa che invece Amistad realizzò solamente in parte, con l’oratoria finale di uno straordinario Anthony Hopkins nei panni dell’ex presidente e militante antischiavista John Quincy Adams.
Il tutto però, dopo aver ricordato ciò che tanti anni dopo, sempre parlando di schiavi per quanto in un film completamente diverso come Killing Me Softly, Brad Pitt avrebbe spiegato nei panni di uno spietato killer: solo i soldi, solo il denaro e il profitto contano in America, molto più dei suoi supposti ideali.
Oltre ad un Anthony Hopkins che ci regalò uno dei suoi personaggi più curiosi, accattivanti e allo stesso tempo difficili da comprendere, Amistad si faceva forza di un cast che aveva in Matthew McConaughey il grande protagonista assieme a Djimon Hounsou, lanciato da questo film, un altro splendido regalo che Spielberg ci fece 25 anni fa con Amistad.
Un avvocato apparentemente cinico, di bassa lega e non particolarmente empatico da una parte, un uomo sottratto alla sua famiglia e che aveva visto ogni genere di orrore dall’altra. Il piccolo miracolo di Amistad era senza ombra di dubbio il fatto che riuscisse a far comprendere come l’intelligenza, la volontà di dialogo, l’interesse verso il diverso, potessero e possono ancora oggi diventare strumenti meravigliosi, con cui azzerare ogni differenza di sorta.
Amistad affascina ancora oggi proprio per la meticolosità e l’intelligenza con cui Spielberg rese l’incomunicabilità il vero, grande nemico di quegli uomini desiderosi soltanto di tornare in libertà, contro un sistema, quello giudiziario americano, che ieri come oggi è molto meno neutrale e molto più controllato dal potere di quanto esso stesso voglia dare a pensare. Spielberg qui attacca profondamente l’ipocrisia perbenista, ma più in profondità anche l’anima puritana degli Stati Uniti, quel qualcosa che compenetra ogni frangente della sua società. Un conflitto ben rappresentato dalla contrapposizione tra un bravissimo Morgan Freeman e il suo supposto amico e compagno di lotta antischiavista interpretato da Stellan Skarsgård. Questi a conti fatti è forse il personaggio più interessante del film, perché fino quasi alla fine appare un genuino e sincero abolizionista, salvo poi rivelarsi intimamente paternalista e in fondo ancora infetto da un razzismo e senso di superiorità verso gli africani davvero disgustoso.
Egli è pericoloso quanto lo sono i negrieri cubani, i politicanti egoisti e cinici, nonché quelli africani che collaboravano a questo commercio, in realtà all’epoca proibito eppure accettato perché conveniente al Capitale che condiziona ogni supposta civiltà.
Impreziosito da una colonna sonora naturalmente magnifica del solito John Williams, con una fotografia di Janusz Kaminski (candidato all’Oscar) che valorizza in modo perfetto i costumi di Ruth E. Carter (altra candidatura pure qui) e le scenografie studiate al millimetro Rick Carter, Tony Fanning e Rosemary Brandenburg, Amistad però vive soprattutto della tipica potenza espressiva della regia di Spielberg. L’incipit è sostanzialmente un capolavoro di composizione e ritmo, una delle scene di ribellione più realistiche, viscerali e potenti che si siano mai viste, perfettamente coerente del resto con un racconto che infine nelle memorie di Cinque, diventerà un’Odissea dell’orrore come oggi non se ne sono più concepite.
Qualcuno all’epoca cercò di sminuirlo definendolo una sorta di copia-carbone poco ispirata di Schindler’s List, quasi che il regista americano cercasse ancora una volta il successo cavalcando la pornografia del dolore della storia, ma nella realtà Amistad ancora oggi è da certi punti di vista il miglior film hai fatto su quella tragedia lunga secoli.
Per vedere qualcosa di paragonabile in termini di capacità di farci comprendere l’empietà del fenomeno bisognerà aspettare paradossalmente un film che quel tema lo affronterà in un certo senso in modo parallelo ed indiretto, come Django Unchained di Tarantino. Perché a dispetto dell’apprezzabile volontà e della cura nella rievocazione storica, né 12 Anni Schiavo di Steve McQueen, né Free State of Jones di Gary Ross, sono riusciti a rendere così universalmente chiaro nella sua terrificante ingiustizia, che cosa l’occidente ed in generale l’uomo bianco facesse a quel continente.
Il tutto però rifiutando non tanto una visione manichea della Storia, perché per Spielberg buoni e cattivi ci sono e ci saranno sempre, ma quanto l’ingiustizia non nasca per caso, ma sovente cavalchi in virtù della supremazia del più forte, del più potente. A 25 anni di distanza, al netto di una certa retorica di ritorno, della volontà quasi di sposare un’ucronia ben poco utile come con il kolossal The Woman King o altre operazioni simili, Amistad rimane uno straordinario esempio di cinema civile ma soprattutto di cinema sull’uomo, con tutti i suoi difetti, i suoi pregi, i suoi orrori e la sua capacità di riscattarsi.