Sfogare l’odio di classe attraverso il cinema è catartico o solo palliativo? Mettendo alla berlina (come merita) l’1% della popolazione mondiale, la satira rischia spesso di usare un’ironia facilona e populista, ovvero “il canto del prigioniero che finisce per amare la sua gabbia”, come diceva David Foster Wallace citando Lewis Hyde. Difficile vederci qualcosa di costruttivo, insomma, ma forse il punto non è quello: film come The Menu intercettano sentimenti di frustrazione, stanchezza e disgusto in un mondo dove le disparità sociali si fanno sempre più marcate, e persino i bisogni primari finiscono per tradursi in status symbol.
Il caso più evidente è proprio quello del cibo, oggetto di un discorso classista che mette a disposizione la qualità solo a chi può permettersela, lasciando agli altri un mucchio di scarti a buon mercato (e basta farsi un giro negli Stati Uniti per rendersene conto: il cibo spazzatura dei fast food è relativamente economico, mentre catene di prodotti bio come Whole Foods sono inaccessibili a gran parte della popolazione). In The Menu l’obiettivo è l’alta cucina, e in particolare la gastronomia molecolare, specialità del grande chef Julian Slowik (Ralph Fiennes). Il suo esclusivo ristorante, Hawthorne, si trova su una remota isola dove l’intero staff vive e lavora 7 giorni su 7, usando le risorse locali per preparare raffinatissimi piatti. La prenotazione è molto costosa, ma Tyler (Nicholas Hoult) spenderebbe qualunque cifra pur di provare la cucina di Slowik, e si unisce a un gruppo di ricchi clienti insieme a Margot (Anya Taylor-Joy), una ragazza che lo accompagna. Mano a mano che le portate vengono servite, però, i commensali si rendono conto che Slowik ha in serbo qualcosa di scioccante.
La buona tensione di The Menu non è tanto alimentata dal desiderio di scoprire cosa accadrà, bensì come e perché. La piega degli eventi è infatti molto chiara, e la divisione in capitoli – ognuno dedicato a una singola portata, con tanto di ingredienti elencati a schermo – aiuta a scandire l’escalation di orrori paradossali. Ai tavoli di Hawthorne è concentrato tutto il privilegio socio-economico dell’Occidente, con uno spettro molto ampio che oscilla dall’industriale di vecchio stampo ai nuovi yuppie, passando per la star di Hollywood e la giornalista culinaria: in altre parole, un concentrato di spocchia che suscita immediata repulsione. Empatia e solidarietà umana servono a poco, perché il regista Mark Mylod – subentrato ad Alexander Payne – costruisce uno slow burn cinico e grottesco, che monta per gradi.
Così, mentre la trappola si dipana e le motivazioni vengono alla luce, The Menu rievoca l’idea della cucina come totalitarismo, dove lo chef ha potere di vita e di morte sul suo piccolo regno. L’esasperazione di questo concetto si ripercuote sull’impostazione stessa della cena, riflesso dell’ego di Slowik. Con i suoi piatti elaboratissimi e quasi incomprensibili, l’eponimo menù ironizza su una tendenza molto contemporanea: quella di trasformare ogni cosa, persino la soddisfazione di un bisogno primario, in “esperienza”, in una performance codificata e ritualizzata; un pasto concettuale, di fatto, più vicino alla soddisfazione cerebrale che al piacere sensuale.
Anche per questo motivo, la risoluzione trovata dagli sceneggiatori Seth Reiss e Will Tracy è molto sensata, per quanto un po’ semplice. Esiste una forbice sempre più ampia che separa “alto” e “basso”, carnefici e vittime, trovando corrispondenza anche nel cibo: soltanto le nostre radici – e la memoria sensoriale a esse correlata – sono in grado di riportarci alla vita reale, come succedeva all’arcigno critico Ego in Ratatouille. C’è quindi un barlume di genuinità che può far breccia nel cuore di Slowik, ormai indurito dalla rigida divisione tra chi dà (gli oppressi) e chi prende (gli oppressori), in quella sintesi del mondo che è il suo ristorante.
The Menu è una satira horror più distruttiva che costruttiva, l’opera di un guastatore che sa come spiazzare e intrattenere il pubblico. Al contempo, però, sa dare voce a un pensiero nichilista sempre più diffuso, quasi una resa incondizionata di fronte alle macerie del presente. Più che salvare o ricostruire, si può solo scappare, e poi osservare il disastro da lontano.