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Romulus II tra realtà e leggenda: intervista a Matteo Rovere

Pubblicato il 02 novembre 2022 di Marco Triolo

Romulus II – La guerra per Roma, seconda stagione della serie creata da Matteo Rovere per Sky, ha fatto da poco il suo esordio, riportando in scena Yemos (Andrea Arcangeli) e Wiros (Francesco Di Napoli), alle prese con la stabilizzazione della neonata Roma. Come la precedente, la nuova stagione filtra celebri episodi della storia leggendaria di Roma, come il Ratto delle Sabine, per creare quella che Rovere definisce una “versione realistica” del mito, che racconti “come potrebbero essere andate realmente le cose che poi hanno generato la leggenda”. In occasione di Lucca Comics & Games, ne abbiamo parlato in esclusiva con lo showrunner e regista, mettendo a confronto Romulus con Il primo re, il prototipo di quella che sarebbe poi diventata la serie.

La seconda stagione di Romulus ha finalmente esordito su Sky. Quali sono le tue sensazioni al momento e soprattutto dove vedi terminare la serie, in quale momento della storia e in quante stagioni?

Le sensazioni sono buone, molto positive. È una serie che sono stato felicissimo di poter concepire e realizzare, perché ha rappresentato per la mia carriera un passaggio importante alla serialità, ma allo stesso tempo mi sembra un risultato abbastanza diverso dal solito per quanto riguarda la produzione seriale italiana. Ha elementi particolari, non comuni: la spettacolarità, l’azione, gli elementi sentimentali, questa lingua un po’ peculiare. Il progetto che ho sempre avuto sono tre stagioni. È un progetto ambizioso che richiede non solo grandi risorse, ma un enorme impegno temporale e anche ideativo da parte degli autori che si susseguono. È una grande avventura per tutti quelli che lo vedranno, ma anche per chi lo realizza. Bisognerà vedere dove ci porterà il percorso, ma il sogno è arrivare alla morte di Romolo, che non è – spoiler – nella seconda stagione, e che compirebbe un po’ il percorso che volevamo raccontare.

La serie porta la tua impronta, eppure non hai diretto molti episodi. Da un punto di vista pratico qual è il tuo impegno nella serie? Che cosa fai quotidianamente?

Diciamo che sono lo showrunner e quindi produco la serie. Oltre a idearla e concepirla, cerco di trovare la strada giusta per realizzare in maniera continuativa la mia visione. Nella seconda stagione ho diretto l’episodio iniziale. Ovviamente la giornata è piena di tutte quelle attività che servono per sistemare la scrittura, preparare gli attori anche agli altri episodi, studiarsi le scene di battaglia, fare i casting, studiare le location e affrontare una serie di problematiche pratiche che occorrono su un set così, perché siamo soggetti ai cambiamenti climatici, la pioggia, la neve, il vento. Abbiamo avuto un nubifragio che ha danneggiato il nostro villaggio e l’abbiamo dovuto ricostruire. È una bella avventura perché è una serie tutta girata dal vero, senza teatri di posa. C’è la necessità di trovare formule che permettano di rendere il tutto sostenibile, fattibile. Servono sempre nuove idee per mettere insieme le cose.

Negli ultimi anni abbiamo visto molte serie italiane ispirate a film, ma nel tuo caso Il primo re è molto diverso da Romulus

Sì, infatti non la definirei neanche tratta da Il primo re.

Quale dei due progetti rispecchia maggiormente la tua idea iniziale? Quando hai fatto Il primo re volevi fare Romulus, e hai dovuto in qualche modo riadattare l’idea, o è il contrario?

Volevo fare Romulus. Volevo realizzare una serie sulla fondazione di Roma, però volevo che fosse strutturata, grandiosa e molto complessa. Quindi, quando mi sono approcciato all’idea seriale, ho detto anche ai partner, Cattleya, Riccardo Tozzi, che ha prodotto con me la serie, e Groenlandia stessa, che per capire bene come maneggiare questa materia avevo bisogno di fare un lavoro ulteriore. Da lì è nato il pensiero di realizzare Il primo re, che ho scritto con gli autori e le autrici, ed è stato una palestra di avvicinamento non tanto tecnica, ma proprio drammaturgica. Chiaramente Romulus è un’espansione di quel racconto, ed è un racconto tra l’altro parallelo, nel senso che non c’è nessun elemento comune, se non due modi di affrontare la leggenda. Ne Il primo re in maniera diciamo quasi metafisica, come se la leggenda fosse vera. Romulus è la versione realistica, come potrebbero essere andate realmente le cose che poi hanno generato la leggenda, il pensiero mitologico.

Romulus racconta un’antichità violenta e brutale, fangosa, mi verrebbe da dire. A livello tecnico, di sonoro e fotografia, c’è un lavoro di livello internazionale. È una cosa che anche tu hai portato avanti negli anni con i film che hai fatto, c’è un ritorno a curare questi aspetti che forse erano un po’ stati tralasciati nel cinema italiano di dieci, quindici anni fa. C’è stata una serie diktat che vi siete posti in fase di realizzazione della serie?

C’è proprio un elemento di design complessivo, quasi di art direction, che è il look. Quando vedi qualche fotogramma di Romulus lo riconosci, senti una peculiarità di colori, costumi, palette. Poi ovviamente io volevo una serie che avesse un elemento di verità, brutalità, il pensiero che fossimo in un mondo arcaico che avesse caratteristiche verosimili, dove le nostre protagoniste e i nostri protagonisti lottano per sopravvivere, per il loro spazio nel mondo, per la loro felicità, ma lo fanno in un contesto in cui la vita umana ha un valore relativo. Un contesto molto brutale che a me, per gusto cinematografico, piace raccontare in maniera vera e veritiera.

Romulus è una commistione di realtà e finzione. In che modo avete bilanciato storia e mito?

La leggenda della fondazione di Roma è un mito come ne esistono tanti nella storia, pensa a Caino e Abele, o a certi miti indiani molto simili su fratelli che si uccidono, allevati da un animale. L’idea era prendere questa materia e creare un contesto che poteva essere quello da cui la leggenda si poteva ingenerare. Detto questo, l’obbiettivo è anche divertirsi: c’è una grande leggerezza, tanta azione, sentimenti, sistemi di relazioni, personaggi femminili molto importanti. C’è una visione molto femminile al centro, il femminile in Romulus è il portatore di cambiamento: la lupa, Ilia, interpretata da Marianna Fontana, Ersilia, interpretata da Valentina Bellè, e Rea Silvia sono figure cardine della drammaturgia e di quello che vogliamo raccontare.

Tornando a Groenlandia, la vostra produzione è diventata sinonimo di un cinema italiano nuovo, fresco, moderno, che fonde autorialità e genere con uno sguardo che punta anche al di fuori dell’Italia. C’è qualcosa che esplicitamente volevate fare in maniera diversa rispetto al normale cinema italiano? O è stato più un percorso naturale date le idee delle persone coinvolte?

Un mantra che ci accompagna è provare a fare film e serie che noi stessi vorremmo vedere come spettatori. Poi ovviamente, per ragioni generazionali, sia io che il mio socio, Sydney Sibilia, siamo nati all’inizio degli anni ’80, quindi siamo cresciuti con un certo cinema, abbiamo un rapporto col cinema italiano di amore/odio. I nostri film, Smetto quando voglio, Veloce come il vento, Il primo re, ma anche quelli di altri autori che abbiamo prodotto, Il campione, Moglie e marito, Croce e delizia, Settembre, Mondocane, The Hanging Sun, usano il genere in una chiave nuova, una visione autoriale, con l’idea di fare proposte sul mercato italiano che non siano usuali, quindi che lavorino su storie non classiche con elementi riconoscibili, come il genere. Ci divertiamo. Abbiamo tutti circa quarant’anni, è un inizio. Vediamo dove ci porterà il percorso.