Ci sono film che si depositano nell’immaginario collettivo, altri invece lo cambiano per sempre. Non è un Paese per Vecchi appartiene da sempre ad entrambe le categorie, in virtù di una lucidità di sguardo che ancora oggi lasci attoniti per quanto ha saputo essere incredibile a livello di attualità e cinico realismo.
Javier Bardem, Josh Brolin e Tommy Lee Jones erano i tre volti dell’America profonda, di quella specie di western un po’ urbano e un po’ no, presago di morte, crimine, empietà e crudeltà, ad immagine e somiglianza di quell’America dove né ieri né oggi esiste pace.
A 15 anni di distanza, questo film rimane una delle opere cinematografiche più importanti dell’epoca moderna, capace a più livelli di farci comprendere quanto profonda sia in realtà la connessione tra l’America e il concetto totalizzante e violento di libertà.
Cormac McCarthy quando scrisse il romanzo da cui i Fratelli Coen hanno tratto questo feroce ibrido tra noir, western crepuscolare, thriller ed action, andò incontro ad una sorta di accoglienza tiepidina e pure manco tanto convinta. La storia fu definita minore rispetto a quelle precedenti del grande autore, altri invece ne criticarono la mancanza di calore e il tono troppo apocalittico.
Nessuno colse però come i Coen la profondità del messaggio creato dallo scrittore, la metafora sulla fine dei valori della cultura americana (ma poi in realtà occidentale), di quanto soprattutto in quel paese, la violenza rimanesse un tratto fondamentale, andando a completare una sorta di analisi lunga anni da parte del duo, sul concetto di male e bene, sulla loro realizzazione nella società.
Il tutto partendo da Moss (Josh Brolin) che trova i soldi di uno scambio tra due cartelli andato a male, della caccia che il sadico e terrificante Anton Chigurth (Javier Bardem) gli fa mentre il vecchio Sceriffo Tom Bell (Tommy Lee Jones) cerca di raccapezzarsi in un orrendo mattatoio che insanguina il Texas del 1980.
La violenza si diceva. Molte critiche arrivarono dalla parte più liberale del giornalismo americano, perché a molti parve che i Coen si fossero fatti prendere la mano, ma la realtà è che ogni gesto, ogni proiettile, ogni momento è assolutamente necessario.
Lo è perché Non è un Paese per Vecchi si concentra nel mostrarci l’agonia dei valori tradizionali, l’America che dominata dai cocaine cowboys, cessa di essere la Frontiera, il luogo romantico di Hollywood per eccellenza, e vede anche il male mutare forma.
Perché se è vero che gli eroi ti dicono molto di come e cosa sei come civiltà, è altresì vero che pure i cattivi esprimono un lato assolutamente basilare della società, di ciò che è giusto e sbagliato si badi bene, perché in fin dei conti, uomini come i Fratelli James o Reno, come la Banda del Buco nel Muro o Billy The Kid, erano sempre un tutt’uno con i valori del loro mondo.
Di tutti quei valori, Chigurth è la deformazione, la negazione, è l’amoralità e la violenza fine a se stessa, non necessaria, il piacere del dolore altrui, la meticolosità nel difenderlo e giustificarlo, l’ipocrisia nel darsi una sorta di codice d’onore che in realtà non esiste.
Lui ti fa tirare la monetina, quando non è sicuro se ucciderti o no, o meglio quando sa che non serve, non è giusto, oppure si lo è ma in realtà è molto distante dalla macchina che vorrebbe essere, e in un certo senso l’onnipotenza dell’essere non onnipotente affidandosi alla moneta, gli serve per sentirsi superiore alla vittima. I vecchi cattivi di cui ricorda nel finale straziante il vecchio e desolato Sceriffo Bell, erano poi diversi da Chigurth? Forse nella memoria che glorifica il passato, nel West che Hollywood ha sempre descritto con manichea celebrazione, con la sei colpi che raddrizzava torti ed offese.
I due sogni che racconta alla moglie, altro non sono che la tragedia dell’America che ha tradito l’eredità dei padri, la Frontiera che non è più terra di libertà ma circo impazzito della morte, dove non esiste più alcun limite alla violenza e il peggio del passato è la normalità dell’oggi.
Di tutto questo Chigurth è simbolo quasi biblico, cacciatore freddo e meticoloso, deformazione mostruosa dell’Antico Testamento che ancora oggi domina nell’America, è pure stravolgimento di quel Cavaliere Solitario che nei western di una volta arrivava nella valle per raddrizzare i torti o i crimini, lui invece regola conti in sospeso, distrugge vite con narcisistica soddisfazione artigianale.
Tutto questo avviene all’inizio di quel decennio, degli anni ’80 in cui il mercato della droga fece ciò che pochi prevedevano all’epoca: cambiò per sempre la società americana. Di fatto, la cocaina è stata il simbolo degli anni reaganiani, della volontà di primeggiare, del profitto, della criminalità che dopo i bei tempi del Proibizionismo, tornava ad esercitare un ruolo di prima grandezza nella Storia americana.
Il male e il bene però come sempre, nei Coen sono assolutamente chiari e definiti, piuttosto la novità, al di là dello stile molto più europeo che americano, che New Hollywood in generale, è come tutto alla fin fine abbraccia il nichilismo, il pessimismo, circa la natura umana e anche la società.
Non esiste giustizia, non esiste pietà, non esiste possibilità di salvezza per Moss, che è un Ulisse perso dentro un viaggio in nome del denaro, l’unica cosa che veramente conti in America.
Non è un Paese per Vecchi è tuttora definito da molti un film che parla del destino e dell’autodeterminazione dell’uomo, un’opera anche metaforica sul senso della vita. Tutti sono ad un tempo prede e predatori qui, vittime e assassini, e per quanto affiori la volontà di riavere il tempo degli Eroi in grado di salvarci, vi è anche la certezza che questa è una speranza vana.
Lo Sceriffo Bell in tutto questo è in realtà il grande sconfitto, il simbolo di una logicità e umanità che non riesce a combattere questo nuovo male, quello dell’era moderna, perché non lo capisce, non lo comprende e quindi non può anticiparne le mosse.
Permane per tutta la durata, una sensazione di impotenza connessa al fato di diverse vittime, come il Carson Welles di Woody Harrelson o la moglie di Moss, Carla (Kelly Macdonald) che hanno la falsa illusione di una salvezza oppure neppure quella.
Ecco allora che la resa di Bell diventa anche il simbolo di una verità: l’America è sempre stata violenta, è cresciuta con la violenza che però non è quella delle Tribù dei Five Points di Scorsese, è quella intima, singola, perché per i Coen non esiste il concetto di comunità o gruppo, ma solo quello di singolo.
Lungi dall’essere quindi un racconto passatista, autoriale in modo estremo, il film è la summa stilistica e semantica dei Coen, anche per quello humor che non manca mai, quella capacità unica di unire tenerezza, umanità e il peggio dell’animo umano, come poi era avvenuto in Fargo, Burn After Reading, il Grinta, l’Uomo che non C’era. Nessuno di questi film però ha saputo essere anche cinematograficamente così complesso, avvalersi di un’estetica così stratificata, con un gioco di luci, ombre e suoni evocativo.
Ma poi la stessa scrittura, che si distanziò per la verità dall’originale letterario, ha reso questo film anche la prova di quanto il duo di fratelli abbia sempre saputo spingersi oltre la mera rappresentazione creata da altri. Il tutto pur rispettandone finalità e significati, ma tenendo sempre presente la differenza tra i diversi medium. Ecco allora che a 15 anni di distanza Non è un Paese per Vecchi assurge a simbolo altissimo di un certo modo di fare cinema, quello che crede nel significato e non nello stile fine a sé stesso.