Con Inside Man Steven Moffat è tornato alla grandissima, la recensione

Con Inside Man Steven Moffat è tornato alla grandissima, la recensione

Di Giulio Zoppello

Con Steven Moffat ci sono davvero pochissime misure: o lo si ama o lo si odia, o lo si apprezza oppure di fronte alle sue opere se ne esce sostanzialmente turbati in modo profondo, soprattutto per la sua visione della vita, dell’uomo, della società in generale.

Inside Man è la sua ultima creatura, di certo una delle più pregevoli per costruzione, caratterizzazione dei personaggi, per la capacità con cui sa creare un crescendo continuo, partendo da due vicende apparentemente totalmente lontane, eppure connesse da un filo rosso sangue.

Di certo questa serie su Netflix è l’ennesima prova del suo grande talento di ragno tessitore, ma forse anche più del suo essere uno dei migliori narratori specifici della serialità televisiva più del grande schermo.

Due storie divise da tutto ma unite dalla morte

Protagonisti di Inside Man sono due assassini (che strano eh?). Il primo è Jefferson Grieff (Stanley Tucci) un criminologo uxoricida cha pare una sorta di copia carbone di Hannibal Lecter, a cui però Moffat riesce a donare, grazie una grandissima interpretazione di Tucci, una vita propria, senza scivolare nel Dejà Vu, mentre lo guardiamo pacato e sereno cercare di risolvere alcuni casi assolutamente intricati.

A fargli da assistente l’apparentemente inoffensivo e gioviale omicida Dillon (Atkins Estimond), che è armato di una sorta di memoria fotografica che lo rende quasi un computer umano.

Poi ecco che dall’altra parte del mondo, in un’Inghilterra che pare sbucata da una sorta di viaggio spazio-temporale, facciamo invece la conoscenza del parroco Harry (David Tennant), che a causa di una serie di fortuite circostanze si trova ad essere accusato di essere un pedofilo.

Angosciato, in preda al panico, nel giro di pochissimo tempo comincia a scivolare in una specie di gorgo fatto di sangue, paura e totale assenza di controllo, che lo renderanno una persona completamente diversa da quella che pensava di essere.

Dopo Doctor Who, Sherlock e Jekill, nonché il tonfo conosciuto con il suo Dracula di Netflix, Moffat torna a parlarci del lato oscuro dell’umanità, lo fa con questa serie abbastanza strana, accolta in modo positivo ma anche forse un po’ sospettoso, non fosse altro per l’eterna sensazione che in fin dei conti lui un po’ ci sia un po’ ci faccia. Tuttavia non si può negare che l’insieme sia assolutamente perfetto dal punto di vista stilistico e per la struttura narrativa, per un ritmo che riesce a non annoiare ma allo stesso tempo lascia abbastanza spazio per fare dei personaggi qualcosa di più di un semplice simbolo dell’ oscurità.

Il tutto per portare avanti in fin dei conti l’idea che Moffat ci ha sempre voluto comunicare: l’uomo non nasce naturalmente buono, non cresce tale e di certo non è quella creatura prevedibile, candida e tranquilla, perché chiunque nelle giuste condizioni per le giuste motivazioni può diventare un carnefice.

Giocando con la moralità della società

Inside Man vive di opposti: il dentro e il fuori, la luce e la tenebra, il vortice e la linearità, ma soprattutto lo fa attraverso i suoi personaggi. Abbiamo un detenuto dietro le sbarre per un crimine orrendo che pare quasi poter vantare di essere una brava persona e di fare qualcosa di utile, e un parroco che segue esattamente un percorso inverso. In particolare quest’ultimo diventa grazie a Tennant a man mano che si va avanti sempre più insopportabile, quasi una sorta di concentrato di ipocrisia, viltà, opportunismo che ne fanno il totem del piccolo borghese medio, lo stesso che in fin dei conti letteratura e cinema per decenni hanno posto a simbolo della mediocrità moderna.

Ad ogni modo Inside Man evita in modo intelligentissimo una visione manichea del mondo ed ogni moralismo, pur essendo una narrazione sulla morale. Si allontana per quanto possibile della cinematografia e dalla visione morale dei fratelli Coen, a cui qualcuno in passato aveva cercato quasi di paragonare la semantica di Moffat. Qui di buoni ce ne sono davvero pochi, o forse nessuno, perché bene o male la malvagità salta di ramo in ramo, come un demone possiede ogni corpo. Essa alberga persino nelle vittime di cui facciamo la conoscenza, perché bene o male quando si tratta di sopravvivere o di casi estremi, non si guarda in faccia nessuno, ci si scopre capace di qualsiasi cosa, anche la più inimmaginabile.

Tutto questo però ci arriva anche attraverso l’ironia, un’ironia che in più di un’occasione pare quasi essere invasiva, come fuori posto, ed invece scopriamo che è la risorsa nascosta, l’asso che Moffat cala per scompigliare le carte, giocare con i generi come ha sempre amato fare.

Il che talvolta poi lo porta anche a sfiorare un certo narcisismo artistico fin troppo esuberante e dichiarato, un senso di superiorità rispetto allo spettatore che si fa strada sempre comunque, ma che è anche il motivo per il quale piace, rispetto a tante altre che invece hanno quasi paura di prendere posizione.

Questo infine spiega perché si impegni così tanto per cercare di renderci gradevoli questi personaggi che qualsiasi altra serie avrebbe dipinto sotto una luce molto più oscura o comunque ambigua. Per lui l’ambiguità invece è una tonalità di colore, è quella più diffusa, è il grigio che domina il mondo.

Un narratore dell’uomo cinico e divertito

Inside Man opera quindi una sorta di negazione rispetto alla malvagità come atto razionale, o meglio come atto preparato in modo freddo e geniale, ci ricorda la banalità del male, ma soprattutto la banalità dell’essere umano. Basta aprire ogni giorno le pagine di un giornale per rendersi conto che Moffat ha perfettamente ragione, per rendersi conto che fin dall’alba dei tempi, fin da Caino e Abele, la morte è qualcosa che spunta all’improvviso, potenzialmente ovunque quasi con normalità.

Alla fin fine Il personaggio che risulta essere il più neutrale o quantomeno quello in cui possiamo rivederci per salvarci è quello della giornalista Beth Davenport (Lydia West), che dà il via alle danze per cercare di salvare Janye (Dolly Wells). Ci ritroviamo quindi con la mente di un criminale affilata come una lama che viene chiamata a fare del bene, e più di una volta si ha come il sospetto che secondo Moffat, chi abbraccia le tenebre sviluppi più qualità intellettuali e qualità di chi ne sta distante per paura.

O forse la realtà è che non è assolutamente sbagliato vedere in questa serie come una sorta di omaggio all’Hannibal Lecter di Harris, alle opere di Gilbert Keith Chesterton, Conan Doyle e anche un pizzico di sua maestà Edgar Allan Poe. In fin dei conti Moffat ha sempre cercato di omaggiare ciò che ama tramutandolo in qualcos’altro. Tuttavia il fine ultimo di Moffat è quello di distruggere la visione semplicistica di noi stessi che rivendichiamo con una sorta di via di fuga, la nostra volontà di negare il caos da cui ci siamo sempre fatti compenetrare che ancora oggi ci domina. Un processo che viene esemplificato dai frequenti colpi di scena, da un rompere completamente ogni equilibrio e dalla volontà di forzare la trama continuamente.

La cosa più incredibile è che Moffat riesca a fare tutto questo facendoci divertire, almeno per chi ha il coraggio di seguirlo in questa costruzione grottesca. Per gli altri anche questa Inside Man apparirà come l’ennesima prova di un autocompiacimento ben poco giustificato.

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