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Glass Onion – Knives Out, la recensione

Pubblicato il 16 novembre 2022 di Lorenzo Pedrazzi

Laddove prima c’erano i Radiohead, qui troviamo i Beatles: Glass Onion eredita il titolo da una canzone del leggendario quartetto, come Knives Out lo ricavava da un brano di Thom Yorke e compagni. Può sembrare un mero vezzo del regista Rian Johnson, ma in realtà è il sintomo di una lettura esasperatamente postmoderna del genere murder mystery, dove il citazionismo ha la stessa importanza dell’intreccio giallo. Se già Knives Out celava questo approccio in nuce, il sequel gli dà una forma ben più compiuta, nonché più allineata con la nuova produzione targata Netflix.

Non c’è dubbio che Johnson tragga ancora ispirazione dai classici del genere – quantomeno Delitto sotto il sole e Un rebus per l’assassino – ma Glass Onion allunga decisamente il passo verso la contemporaneità, più di quanto non facesse Knives Out. Quest’ultimo si svolgeva pur sempre in un contesto “tradizionale”, riconoscibile dai fan del genere: una magione del New England dove veniva ucciso un noto scrittore di libri gialli. La nuova indagine di Benoit Blanc (Daniel Craig) ci proietta invece in un circolo di arricchiti, capitanato dal magnate della tecnologia Miles Bron (Edward Norton). È lui a convocare un gruppo di vecchi amici sulla sua isola privata in Grecia, dove ha organizzato una “cena con delitto” seminando indizi per tutta la casa.

Del gruppo fanno parte: Claire Debella (Kathryn Hahn), governatrice del Connecticut ora candidata al Senato; Duke Cody (Dave Bautista), star di YouTube e attivista per i diritti degli uomini; la sua ragazza Whiskey (Madelyn Cline), che gli fa da assistente; Lionel Toussaint (Leslie Odom Jr.), scienziato che lavora per Miles; Birdie Jay (Kate Hudson), ex supermodella divenuta stilista; e Cassandra Brand (Janelle Monáe), ex socia di Miles. Anche Blanc è stato misteriosamente invitato al ritrovo: quando il morto ci scappa per davvero, il detective deve affidarsi al suo formidabile intuito per districare la matassa.

Dare un senso al caos

La scrittura contorta di Rian Johnson si addice molto più al giallo che alla fantascienza, e Glass Onion ne è la prova definitiva. Quella stessa narrazione che aveva reso Gli ultimi Jedi il capitolo più originale e involuto di Star Wars, qui si adatta benissimo a un genere che storicamente ama gli intrecci complessi, accumulando dettagli e false piste per confondere il fruitore. In effetti, Glass Onion si diverte a disorientarci con un avvio senza preamboli, fatto di dialoghi serrati e situazioni caotiche, dov’è impossibile determinare i rapporti fra i personaggi. La trama si dipana per gradi, anche perché Johnson conferma un tratto fondamentale delle sue sceneggiature: la capacità di sterzare all’improvviso nelle direzioni più impensate, rinnovando sempre la tensione.

Proprio quando pensiamo che la storia abbia imboccato una certa strada, il regista la spinge altrove. Accade allora che l’intreccio si ribalti, e il vero personaggio principale si riveli soltanto a metà film, in un lungo flashback che mette alla prova la nostra pazienza (nonostante sia utile ai fini dell’intreccio). È forse l’unico momento in cui Glass Onion mostra un po’ la corda: per il resto, la sua lunga durata non perde mai il filo del discorso, né tantomeno la suspense. Blanc è più protagonista rispetto a Knives Out, ma anche qui sa mettersi da parte quando il suo ruolo è concluso, e funge da “razionalizzatore” più che da eroe della vicenda: come nella migliore tradizione investigativa, è lui a mettere ordine nel caos, dando un senso alla follia degli eventi.

A pesca di meme

È proprio nella caratterizzazione di Blanc che Johnson sembra divertirsi di più, assecondato da un Daniel Craig in stato di grazia. Con il suo buffo accento del sud e una curiosità indagatrice, Blanc pare sempre l’uomo giusto nel posto sbagliato: un intruso di elegante inadeguatezza, quasi un alieno che passa il tempo a osservare lo strano comportamento dei terrestri. Scopriamo qualche dettaglio sulla sua vita privata, ma soprattutto il peculiare funzionamento del suo intelletto sopraffino, allergico alle sfide troppo semplici che non lo stimolano abbastanza.

Se l’aristocrazia letteraria di Knives Out era più vicina al suo ambiente, i nuovi ricchi di Glass Onion lo straniscono. La satira del film passa anche da qui, ponendosi sul medesimo solco di Triangle of Sadness e The Menu, per citare due casi recenti. Miles Bron e i suoi amici sono gli emblemi del più sfrenato neoliberismo, abituati a manipolare la realtà pur di trarne profitto. Johnson ha l’intelligenza di inserirli in un più ampio contesto di privilegi e volti noti, intessendo così una rete di riferimenti, camei e easter egg che sembrano pensati apposta per diventare meme. Glass Onion, di fatto, compiace fin dal principio quel gusto per l’umorismo surreale e citazionista che ha grande fortuna sui social network. L’arrivo di Netflix ha sicuramente influito sui toni del racconto, qui meno forzati che altrove grazie alla genuina brillantezza del regista.

Ne deriva un murder mystery che parla lo stesso linguaggio del suo pubblico, poiché ne condivide l’immaginario. Un retaggio che, tra le altre cose, comprende decenni di libri e film gialli: non a caso, Glass Onion è anche una riflessione sulle regole stesse del genere, sull’atto dell’investigare e del ragionare. È Blanc a denudarle nelle sue elucubrazioni, come un critico letterario che analizza le scelte narrative di un autore. Il post-moderno, per sua stessa natura, fa proprio questo: mette in scena uno spettacolo di marionette al solo scopo di svelarne i fili.