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Boiling Point vi farà passare la mania per gli show culinari, la recensione

Pubblicato il 11 novembre 2022 di Giulio Zoppello

L’abbiamo capito ormai da diversi anni, la cucina è il nuovo campo di battaglia, i cuochi e i camerieri sono i nuovi generali e soldati di una guerra fatta colpi di condimenti, pietanze virgole soprattutto di una pressione costante, roba da 007 o Rocky Balboa.

Se pensavate che The Bear fosse un caso isolato, allora dovete ricredervi, perché insomma è arrivato Boiling Point, dramedy grottesco e indiavolato diretto da Philp Barantini e con un Stephen Graham in gran spolvero, nei panni di uno chef pieno di guai.

Il risultato finale senza ombra di dubbio è di alto livello anche se non perfetto, si parla di un film che ci mostra tramite un’estetica accattivante e un ritmo a dir poco incredibile, l’inferno che sono i fornelli, le cucine dell’alta ristorazione in generale, dove si consuma un rito antico e nuovo assieme senza sosta.

Uno chef a dir poco sotto stress

Per Andy Jones (Stephen Graham) la vita è alquanto complicata, per non dire un vero e proprio disastro. Chef di indiscutibile talento ed esperienza, non riesce però a trovare il giusto equilibrio con la sua vita privata, che quel momento è assolutamente senza controllo.

Ha da poco divorziato, ha un pessimo rapporto con la prole e dentro il ristorante “Andy and Sons” nella Londra che conta, fa di tutto per mettere da parte il suo problema con l’alcool, il suo carattere narcisista e insofferente, insicuro dietro la pattina di comandante del piglio di ferro.

Quella sera di Natale, Andy ha a che fare con una cena importantissima, clienti a dir poco intrattabili tra famiglie prive di controllo, critici culinari con il coltello tra i denti, il suo ex socio a cui pare che vada tutto bene e soprattutto loro, gli influencer, sorta di nuova classe nobiliare chi in qualsiasi ramo della società deve rivendicare sempre il meglio del meglio. Boiling Point ci guida dentro questo universo, in un singolo piano sequenza incredibilmente potente, espressivo, di altissima tecnica registica, qualcosa da fare invidia anche a 1917 di Sam Mendes, da cui in realtà non si discosta poi tanto. Si perché Barantini in fondo ci fa capire che lì, ogni pranzo ed ogni cena sono sostanzialmente una battaglia senza esclusione di colpi.

Questo è un film che conferma come bene o male dopo diversi anni, si sia tolta finalmente ogni patina di romanticismo, di inutile retorica ad un mondo, quello della cucina, che bene o male ha sempre risposto a delle regole classiste e militaresche che appaiono sempre di più fuori tempo massimo.

Boiling Point riesce a far arrivare tutto questo, dentro una danza infernale di un uomo perso dentro il suo sogno che è diventato un incubo, e che alla fine in realtà accarezza anche tematiche molto più elevate della semplice rappresentazione dell’arte culinaria ai suoi livelli più stressanti.

Un grande attore per un film atipico e feroce

Boiling Point ci offre un ritratto a 360° di quello che è il mondo della cucina di alto livello, a conti fatti da sempre anche una perfetta rappresentazione dei rapporti umani al di fuori di essa.

Graham non è un attore qualunque, di base forse il miglior caratterista della sua generazione, per il talento che ha avrebbe meritato ben altre carriera e successi; se ci fate caso è stato in ogni (o quasi) prodotto di intrattenimento di valore degli ultimi vent’anni.

Da Gangs of New York a Boardwalk Empire, da Snatch a Band of Brothers, da Peaky Blinders a This is England. Forse l’unica sfortuna che ha, è ciò che in realtà lo rende perfetto per questo ruolo: gli manca totalmente la faccia da privilegiato, da quello che dalla vita ho sempre avuto vantaggi e mai problemi.

Classe ‘73, Graham si muove con fare elettrico e confusionario, umanissimo e pieno di crepe per tutti e 90 i minuti di questo film, che pare una sorta di decostruzione mostruosa di quella melensa avventura culinaria che fu Il Sapore del Successo con Bradley Cooper.

Ebbene sì, il primo film che può venire in mente è proprio quello di Steven Knight, che faceva finta di condannare la retorica del successo tra i fornelli, che la televisione in questi ultimi anni ha affibbiato all’arte culinaria, in realtà esaltandone proprio l’essenza più competitiva e tossica.

Boiling Point invece, ci mostra un protagonista che è difficile da ammirare ma anche da odiare, con una vice pronta ad accoltellarlo alle spalle, assistenti fuori di testa, clienti odiosi, nuove reclute che già rimpiangono di aver votato la propria esistenza ai fornelli.

E poi naturalmente ecco che arriva chi dirige il locale, e pensa che la pubblicità conti più di tutto, che il cliente abbia sempre ragione in ogni caso. In tutto questo Jones si aggira come una sorta di stregone, di pompiere che cerca con sempre più fatica di non uscire di matto.

La cucina come specchio della società moderna

Boiling Point ha dalla sua senza ombra di dubbio un’essenza estetica di grande fascino, che supplisce ad una sceneggiatura che forse ad un certo punto smette di essere così intraprendente e coraggiosa, per quello che riguarda la profondità dei personaggi, e rimane forse un po’ schiava del proprio intento ultimo: creare una metafora della società.

Alla fin fine si tratta soprattutto di un film corale, anche se in senso lato, dal momento che dà sì spazio ad ognuno dei personaggi, ma poi in realtà il tramite è proprio questo chef schiavo della propria reputazione, della necessità di essere sempre vincente.

Negli ultimi decenni, il piccolo schermo ci ha parlato attraverso concorsi, la cucina di Hell’s Kitchen, le gare di MasterChef, del cibo come specchio dell’anima, o addirittura come prova reale di che cosa voglia dire essere capaci o meno, da ammirare o meno.

Ecco allora che mentre vediamo l’ispezione dell’ufficio igiene, mentre assistiamo all’umanità detestabile che sfoga le sue nevrosi sui tavoli, dipendenti sleali che confabulano, comprendiamo che infine, la cucina come tempio è diventata semplicemente un ritratto della nostra società.

Non esiste più empatia, non esiste più neppure la possibilità di un confronto umano, tutto viene schedato, tutto è incapsulato dentro ruoli da cui non si può uscire, dall’illusione di un ascensore sociale che in quella cucina non esiste come non esiste più neppure fuori.

Viene quindi meno il patto sociale, la solidarietà, ci si aggrappa in tra i fornelli come poi in tutto il resto, al mito dell’uomo forte, il grande leader, il guru, che si chiami Gordon Ramsay come Jeff Bezos, non importa.

Boiling Point ha vinto molto a Taormina, in un’edizione poco entusiasmante, non è un capolavoro del genere, ma un film sicuramente gradevole, affascinante, 90 minuti in cui alla fine spogliamo della sacralità la figura del cuciniere. Perché capiamo che lui, loro, in fondo sono dei poveri sfigati come noi, prigionieri di una gabbia che si sono costruiti da soli.