Cinema Recensioni Cinecomic

Black Panther: Wakanda Forever, la recensione

Pubblicato il 08 novembre 2022 di Lorenzo Pedrazzi

Bastano le prime inquadrature per capire che Black Panther: Wakanda Forever non sarà un cinecomic come gli altri. Fin dall’inizio si percepisce l’urgenza di raccontare qualcosa che varca i limiti dello schermo, e che introduce nel mondo fantastico del Marvel Cinematic Universe una scheggia di dolorosa realtà. Parliamo di universi narrativi in cui la malattia viene raramente nominata (il caso recente di Thor: Love and Thunder è un’eccezione), e ancor più raramente essa causa la morte di un eroe. Perché gli eroi, quando muoiono, lo fanno nel modo più epico possibile, all’insegna di un sacrificio titanico che rende più accettabile il loro trapasso agli occhi di lettori e spettatori. Non è questo il caso, però. La realtà irrompe di prepotenza nel sogno marvelliano, ricordandoci che gli eroi possono anche morire in silenzio, con penosa dignità, fuori campo.

Quelli che restano devono affrontarne le conseguenze, a livello sia pratico sia psicologico. T’Challa, come Chadwick Boseman, non c’è più. Sua sorella Shuri (Letitia Wright) si colpevolizza per non averlo potuto salvare, e non è un caso che il film si apra proprio su di lei: nonostante la coralità del racconto, il regista Ryan Coogler mette subito in chiaro chi sarà la vera protagonista. Intanto, però, il Wakanda deve cavarsela senza il suo paladino, e la Regina Ramonda (Angela Bassett) prende il posto del figlio nel governo del paese. Le mire delle potenze straniere sul prezioso vibranio provocano la reazione di un misterioso regno sottomarino, Talokan, guidato da un sovrano semi-divino noto come Namor (Tenoch Huerta). Ben presto, il Wakanda deve decidere da che parte stare, ma le scelte di Shuri e l’inflessibilità di Namor rischiano di innescare una guerra tra i due paesi.

Elaborazione collettiva

Abbiamo quindi un intreccio narrativo, fatto di contrasti politico-militari su scala internazionale, e una trama emotiva che si sviluppa nell’interiorità dei personaggi. Ovviamente i due piani s’intersecano, poiché il cammino di Shuri verso la consapevolezza del suo ruolo – e l’elaborazione del suo lutto – è inscindibile dallo spettacolo avventuroso dell’azione, dai motivi che la spingono a combattere Namor. Nel seguirne il percorso, Ryan Coogler ci coinvolge in un processo collettivo che agisce su piani diversi: quello dei personaggi, che piangono la morte di un familiare, un alleato, un re, un punto di riferimento; quello del cast e della troupe, che commemorano un collega, un amico, un professionista; e quello del pubblico, che celebra un attore, una star, un modello cui aspirare. Black Panther: Wakanda Forever è una gigantesca elaborazione del lutto, rarissimo caso in cui un blockbuster da 200 milioni di dollari può mediare il rapporto tra gli spettatori e un trauma reale.

Il confine tra spettacolo e vita si fa quindi molto labile, pressoché inesistente. Un caso simile potrebbe essere quello di Fast & Furious 7 con la morte di Paul Walker, ma la differenza è che qui l’intero film è stato concepito fin dal principio come un’elaborazione del lutto. Shuri ci prende idealmente per mano, il suo processo di accettazione è anche il nostro, mentre Nakia (Lupita Nyong’o) lo porta a definitivo compimento. Un’impresa realizzabile solo con il cinema, arte popolare per eccellenza. Nessun’altra forma espressiva avrebbe potuto coinvolgere così tanti sguardi, e così tante coscienze, da tutto il mondo.

Questioni identitarie

Ciò che non è cambiato rispetto al progetto iniziale – quando Chadwick Boseman era ancora in vita e Coogler stava scrivendo il film – è l’introduzione di Namor e di Talokan, che rileggono il mito di Atlantide attraverso la cultura Maya. Un’idea vincente, non solo per allontanarli dall’Aquaman dei film DC: questa versione di Namor pone infatti l’orgoglio etnico al centro del discorso, in modo che la questione identitaria passi dalla lingua, dai costumi e dalle lotte politiche. Mentre il dibattito su colonialismi vecchi e nuovi torna a essere di grande attualità in Occidente, Talokan e Wakanda si scoprono accomunati dalla medesima storia di oppressione, ribaltando così il consueto punto di vista dei colossal hollywoodiani (come in parte ha fatto anche Black Adam, seppure in modo più grezzo e diplomatico). Non c’è dubbio che esistano dei precisi calcoli di natura commerciale dietro questa scelta, ma desta comunque una certa impressione vedere un blockbuster americano che ritrae il cosiddetto “primo mondo” in veste quasi antagonistica, dove l’unico a salvarsi è l’Everett Ross di Martin Freeman (attore qui un po’ sprecato, a dire il vero).

Nonostante le assonanze tra i due popoli, Namor diventa l’incomparabile forza con cui Shuri deve misurarsi per superare il trauma della perdita, e quindi accettare il lato più luminoso – per non dire misericordioso – della sua eredità. Racconto formativo ed elaborazione del lutto vanno di pari passo, trovando così una giustificazione accettabile (e non troppo forzata sul piano narrativo) per il conflitto.

Passato e futuro

Certo, gli orizzonti della storia sono molto più ampi rispetto al primo film, e la sceneggiatura ci impiega troppo tempo per arrivare al punto: se consideriamo anche l’introduzione di Riri Williams / Ironheart (Dominique Thorne), è chiaro che la trama rischia di parcellizzarsi oltre il lecito. Ciononostante, Coogler riesce a mantenere notevoli sprazzi di solennità e malinconia, spesso sconosciuti ai film dei Marvel Studios, fino a un epilogo davvero toccante che si allontana dal consueto registro delle loro produzioni (e dove il cineasta ritrova le sue radici indie). Il resto è un intrattenimento solido e onesto, cui non mancano alcune intuizioni significative: esemplare il concept design di Talokan, che mira a una sorta di ruvido e oscuro “realismo”, lontanissimo dalle scintillanti metropoli sottomarine di altri blockbuster.

Il regno di Namor conserva una patina quasi aliena, come l’aspetto e l’atteggiamento dei suoi abitanti, mentre l’ambigua dolcezza del sovrano desta reazioni stranianti sia nel pubblico sia nei personaggi. In tal senso, la performance di Tenoch Huerta rende l’idea di una figura che cammina sul confine tra umanità e divinità, controbilanciata dalla potente interpretazione di Angela Bassett, fiera leonessa che squarcia lo schermo con battute memorabili. La deriva di Black Panther: Wakanda Forever è molto più contemplativa che in passato, ed è giusto così. L’elaborazione può farsi collettiva solo quando c’è una reale compartecipazione di emozioni e intenti, dentro e fuori dallo schermo: si giunge a una chiusura, ma contemporaneamente si guarda anche al futuro.