Cinema

I vent’anni di 8 Mile, il miglior biopic musicale del XXI secolo

Pubblicato il 08 novembre 2022 di Giulio Zoppello

Pensate che i film biografici dedicati ai grandi della musica siano una palla? Tranquilli, avete ragione in buona metà dei casi, soprattutto perché Hollywood bene o male li offre sotto forma di fanservice, evita di parlarci della vita reale, infiocchetta sempre il mito da salvare sempre e comunque.
Ne volete uno vero, crudo, duro, pieno di quel qualcosa che al cinema pare non esserci più (si, la verità, quella)? Allora dovete tornare a vent’anni fa, al 2002 che da noi era il Mondiale disastroso in Corea, ma era anche l’anno in cui usciva 8 Mile di Curtis Hanson, il biopic dedicato a lui e interpretato da lui: Marshall Bruce Mathers III, per tutti quanti Eminem, il Re bianco del Rap, sputato fuori dalla fu Città dei Motori.
A vent’anni di distanza, rimane il miglior film del genere, con buona pace di Oscar e compagnia bella.

Il sogno di un ragazzo nella Detroit degli anni ‘90

Detroit. Droga, criminalità, disagio, il cemento che inghiotte ogni cosa e ogni speranza, soprattutto quella di Jimmy “B-Rabbit” Smith Jr. (Eminem), ragazzo bianco che vive a metà tra le due anime della città, quella nera e drogata, quella bianca e alcolizzata.
Ogni giorno o quasi è su quella 8 Mile Road, che segna di fatto il confine tra i due mondi, le due anime di quella città che era la Regina dei Motori, poi conobbe un tracollo osceno con la crisi economica e diventò la peggior città d’America, che vomitava solo due cose: pugili o criminali.
In quel 1995 per Jimmy vivere a Detroit significa bene o male essere una preda per chiunque o quasi, a causa del suo essere mingherlino, bianco e soprattutto follemente innamorato del rap, strumento musicale black per antonomasia, custodito gelosamente da una comunità chiusa, disperata e intollerante.
Per Jimmy la vita è un inferno di povertà e malessere familiare, a causa del lavoro durissimo che fa, del difficile rapporto con l’alcolizzata madre Stephanie (Kim Basinger), che non riesce a liberarsi dell’abusivo nuovo compagno Greg (Michael Shannon) e a proteggere la sorellina Lily (Chloe Greenfield) dallo squallore di una vita ai margini, con pochi soldi, nessuna speranza e zero prospettive.
Jimmy ama il rap, vorrebbe farsi valere nelle battaglie di freestyle, ma la sua timidezza, insicurezza e mancanza di una reale motivazione artistica lo portano ad essere costantemente umiliato, messo in ridicolo e spesso anche bullizzato, in particolare dal piccolo boss locale Papa Doc (Anthony Mackie), che guida la crew locale dei Free World, acerrimi rivali di Jimmy e dei suoi amici.
Sarà la volontà di rivalsa contro un mondo che appare una giungla senza pietà, nonché l’incontro con la giovane Alex (Brittany Murphy), a portarlo verso la strada di una maggior audacia, ma soprattutto a voler abbracciare in pieno quella passione per il rap che sente che potrebbe rivoluzionargli la vita.

Un film simbolo di un artista unico

8 Mile uscì sostanzialmente nel momento in cui Eminem, con “The Marhall Mathers LP” e poi “The Eminem Show”, in quel 2002 aveva ormai raggiunto il grado star internazionale, venduto milioni e milioni di dischi, fatto fare all’Hip Hop culture il definitivo salto di qualità verso confini assolutamente inediti.
Era perché era bianco? Si è molto discusso anche negli ultimi anni di questo, i detrattori lo hanno a volte paragonato a ciò che furono i New Kids on the Block o chi nella storia prese la black music e raccolse il successo che era destinato ad artisti neri. Ma la realtà, insita e rivelata in questo biopic palese anche se non dichiarato, è che Eminem, ragazzino cresciuto in quel Michigan distrutto dalla crisi degli anni ’80, è stato sostanzialmente l’Elvis dei nostri giorni.
Come il Re del Rock, anche lui era cresciuto in un contesto multiculturale di cui 8 Mile fa sfoggio dolente, privandolo però totalmente della portata inclusiva o da sogno del Melting Pot, quanto piuttosto delineandone fin da subito l’essenza di uguaglianza tra gli ultimi, i dimenticati, le ultime ruote del carro a stelle e strisce.
Eminem/Jimmy nasce e cresce nel momento in cui la periferia è soprattutto dei neri ma non solo, e in cui gruppi come gli N.W.A., i Public Enemy, infine poi solisti come 2Pac, Biggie e tutti gli altri, usano il rap per parlare della loro vita, per distruggere quel sogno americano che paradossalmente inseguono, mentre sopravvivono a sparatorie e lotte di gang. 8 Mile parve a molti una sorta di Rocky Balboa di fine secolo in salsa musicale, ma era completamente distante dall’eroe creato da Stallone.
Eminem/Jimmy cresce sapendo che l’american dream è una fandonia, tranne la solitudine che esso chiede, così come il fatto che, se vuoi qualcosa, citando il Jack Nicholson di The Departed, in quel paese te lo devi prendere e basta. Il film di Hanson, sceneggiato in modo molto robusto da Scott Silver, vent’anni fa ci parlò del perché quella musica era così potente: era vera, era genuina, gli artisti che la creavano (almeno all’epoca) non cercavano tanto il successo facile (che Jimmy poi rifiuterà) ma la libertà di essere megafono di una propria visione della vita, della società.

L’Hip Hop è morto. Viva l’Hip Hop

La verità che ci arriva, a vent’anni di distanza da quel film che stupì per genuinità, potenza e caratura, è quanto in realtà Eminem, l’ultimo vero, grande nome del rap, del mondo hip hop, appartenga in tutto e per tutto agli anni ’90, pur avendone segnato la fine.
Il cinema di oggi, con alcune rare eccezioni come Blonde, non sa parlare dei miti senza renderli partecipi di un iter consolatorio che 8 Mile, con le amicizie tradite, l’amore infedele, la madre orrenda di una bravissima Kim Basinger, evita come la peste.
Oggi un film così feroce, così anti-hollywoodiano, non lo potresti più fare, anche perché non esiste più nessuno come Eminem per la Generazione Z, che preferisce stordirsi con strane parole, look riciclati dagli anni ’80, un sacco di chiacchiere sui diritti civili ma zero su quelli economici.
Eminem, in questo film, sua unica prova d’attore, ci mette davanti anche la divisione in tribù eterna e violenta dell’America, dove la coscienza di classe non esiste, esiste solo la subcultura urbana di un paese che non si ferma eppure non cambia. “Sei l’unico bianco che sa cosa vuol dire essere un negro” gli ha detto pochi mesi fa in un podcast radio Mike Tyson, il Dio dei ghetti armato di guantoni, a quel bianco piccolo, magro, oggi 50enne, ma che ha conservato sempre la sua forza perché, nel profondo, è rimasto sempre quel ragazzino solo perso sulla 8 Mile.
Ecco perché questo film, dopo vent’anni, oltre a rappresentare l’apice e assieme il declino del mondo hip hop, del rap che morivano come ne cantava NAS, rimane uno dei più importanti film musicali di sempre: era l’istantanea di un paese e di ciò che non funziona, l’assenza di una speranza se sei nato dalla parte sbagliata. Jimmy, come tanti coetanei di colore, può uscirne solo come farà: diventando una star.
Ma quanti, ricordava pochi giorni fa Charles Barkley, già a scuola pensano di voler diventare assi dell’NBA, della NFL, invece di medici o avvocati, perché sanno che non potranno mai studiare per esserlo?
8 Mile si aggira come una profezia eterna da allora, da quando è finito l’ultimo decennio significativo, prima della distruzione della musica come mezzo di espressione di una verità, di cui il rap è stato l’ultimo esempio e questo film il testamento cinematografico.