The Old Man è la serie che non ti aspetti da questo 2022, la recensione

The Old Man è la serie che non ti aspetti da questo 2022, la recensione

Di Giulio Zoppello

Nell’ambito del genere spionistico, vi sono stati moltissimi tentativi di creare insiemi narrativi che pur appartenendo al genere, si diversificavano per finalità e iter diegetico, tematiche e soprattutto per protagonisti, ma non sempre con esiti felici.

Ora su Disney+ arriva finalmente una serie TV in grado di offrire qualcosa di veramente nuovo e genuino, un prodotto in grado soprattutto di riportare in auge un grandissimo attore come Jeff Bridges, reduce da una battaglia tutt’altro che semplice contro un Linfoma non Hodgkin e poi anche contro il Covid. 
The Old Man, tratto dal romanzo di Thomas Perry, è difficile che possa lasciarvi con l’amaro in bocca, grazie ad una sceneggiatura di grande spessore ed un cast azzeccatissimo.

Un vecchio lupo nascosto nel buio

Per Dan Chase (Jeff Bridges) la vita appare ormai una sorta di lunga passeggiata verso il tramonto finale, In una delle classiche piccole cittadine dell’America profonda in cui non succede praticamente mai nulla, e in quel nulla lui pare aspettare, con due cani a fargli compagnia e una salute che appare sempre più traballante.

La solitudine in The Old Man fa immediatamente capolino nel momento in cui comprendiamo che quest’uomo non ha sostanzialmente nessuno al mondo, e vive nel terrore di dover soffrire la stessa forma di demenza senile che ha caratterizzato gli ultimi terribili anni della sua defunta moglie.

Ma la verità è molto diversa, dal momento che Dan è in realtà un ex agente di punta della CIA, in particolare per quello che riguarda il fronte afghano dove negli anni ‘80 gli Stati Uniti di fatto distrussero la potenza militare Sovietica. La sua vita aveva subito un improvviso crash nel momento in cui si era messo di traverso rispetto alle ciniche e miopi strategie dell’agenzia, costringendolo poi a darsi alla macchia. 
Di fatto per anni è stato un fantasma, ma ora sono riusciti a trovarlo e per sopravvivere il vecchio lupo sarà costretto a tirare fuori una volta di più le zanne, mentre sulle sue tracce ci sarà anche l’ex amico di una vita, ora pezzo grosso dell’FBI, Harold (John Lightgow).

Dan dovrà anche fare i conti con le conseguenze del suo incontro con Zoe (Amy Brenneman), che aggiungerà imprevedibilità alla sua fuga solitaria contro tutto e tutti. The Old Man diventa quindi una sorta di omaggio al thriller e alla spy-story che fu, anche grazie ad un meraviglioso uso di flashback in cui emerge anche il talento di attori come Bill Heck, Christopher Redman, Leem Lubany, Alia Shawkat e Hiam Abbas, che popolano un racconto in cui l’azione non è mai fine a se stessa, ma mezzo per un interviaggi etico di grande interesse.

Una spy story molto diversa dalla norma

The Old Man si regge soprattutto su Jeff Bridges, sul suo carisma da vecchia quercia, simbolo perfetto di una certa America anche cinematografica, che oggi ormai non esiste più, con il suo modo di fare tra il burbero e l’efficiente, con la sua credibilità.

La serie ideata da Jonathan E. Steinberg e Robert Levine strizza l’occhio agli action del cinema che fu, un pochino anche al western, così come a quel filone esistenzialista che sia grazie ad un cineasta come Clint Eastwood e ad operazioni commerciali di recupero più recenti, hanno bene o male messo in un angolo la gioventù come qualità trainante di un protagonista.

Il tutto in favore delle esperienze di vita, magari di un passato tragico e complesso come quello di Dan, che ha visto il peggio del peggio della Guerra Fredda, ha scelto di farsi da parte e di diventare uno dei quei ribelli solitari che da sempre offrono il meglio del meglio della narrativa cinematografica e seriale americana. Alla base si intuisce un’opera di demitizzazione della spia classica, descritta non più come fascinosa macchina assassina dalla parte del giusto, ma come cinica e invisibile, qui invece connessa al dramma familiare, ai sensi di colpa, ad un passato fatto di errori e di una storia insanguinata, di cui ogni personaggio si fa a modo suo carico, nel passato e nel presente.

La scrittura fa miracoli di equilibrio per cercare di non addormentare il tutto, di tenere un ritmo il più possibile scevro da un eccessivo distacco con la fonte letteraria originale. Il che però alla lunga può portare a una certa verbosità dell’insieme, in virtù dell’aver sposato quel piccolo difetto tipico della narrazione moderna: piuttosto che mostrare, spiegare, quando invece il racconto per immagini dovrebbe avere sempre la priorità. Tuttavia è Innegabile che questo porti sicuramente a una maggiore empatia e vicinanza ai personaggi, anche per come si evita una descrizione manichea dell’insieme, si escluda una totale cesura tra buoni cattivi, tra tenebra e luce.

Tra recupero e sperimentazione di un genere

The Old Man si propone quindi come una sorta di messa in scena di un mea culpa dell’America che fu, quella che è stata incapace di sconfiggere non solo tanti nemici esterni, ma anche quelli interni, di andare oltre un mero patriottismo di maniera, di creare un paese diverso.

Lo scontro generazionale diventa anche uno scontro culturale, in cui però forse alle volte il tema della paternità, così come quello di una rinnovata dimensione sentimentale, risultano poco coerenti e poco pertinenti con il contesto narrativo.

Tuttavia la valutazione finale non può essere più che positiva, soprattutto perché permette a due attori di razza com’è Bridges e Lighthow di  tornare ruggire come i bei tempi, a farci capire in qualche modo che come per i loro protagonisti, anche nel mestiere dell’attore se le toglie qualcosa, d’altra parte da un esperienza e capacità che nel fiore  della propria gioventù non si può minimamente avere.

The Old Man attraverso la solitudine del suo protagonista, abbandonato bene o male anche dalla figlia nella sua vita reale e fisica, mette in scena quindi anche l’isolamento dell’America moderna, che per molto tempo ha pensato di poter ignorare i peccati del proprio passato, di metterle sotto il tappeto.

Vi è un profondo respiro autoriale nell’ insieme, malinconico, spezzato, che per certi tratti può ricordare l’opera di cineasti ribelli del passato come furono Richard Lester o Aldrich, anche per quanto la spietatezza sia mitigata da un’anima malinconica mai doma.

Difficile dire se come certa critica sostiene, questa sia una delle migliori serie dell’anno, di certo è una delle più coraggiose, di quelle con cui un po’ sorprendentemente, Disney si stacca dal suo percorso votato soprattutto alle famiglie e nuove generazioni, concepisce un prodotto che è soprattutto per millennial e boomer. Però non rinuncia a parlarci come ha fatto nel mondo animato, più di una lotta contro l’esterno, di quella contro noi stessi, le nostre paure, il nostro passato e soprattutto la possibilità di essere qualcosa di simile o diverso da ciò che siamo stati.

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