Hopper Jack Penn, Dylan Penn e Zoe Sidel sono tre figli d’arte nel senso più pieno della parola. I primi due frutto del lungo matrimonio tra Sean Penn e Robin Wright, Zoe invece è figlia di Rosanna Arquette e John Sidel. Volti nuovi per film nuovi, ma parlando di Signs of Love invece bisogna prendere atto che il film di Clarence Fuller è un dramma classico, ispirato alla New Hollywood che fu.
Il risultato finale è abbastanza equilibrato, pure interessante, grazie ad una sceneggiatura non molto creativa a livello di eventi, ma coerente, robusta e interessante per come si concentra sugli ultimi, su un universo di perdenti, reietti, esclusi, la periferia americana tomba di ogni ambizione e speranza.
Tulsa, Oklahoma, la città del massacro degli afroamericani, e regina del petrolio, crogiuolo di drammi, povertà e dove vivono Frankie (Hopper Penn) e sua sorella Patty (Dylan Penn), ragazza madre di Sean (Cree Kawa) in una zona periferica della città.
Frankie è figlio di Michael (Wass Stevens) ex avvocato a cui il divorzio dalla moglie molti anni prima ha distrutto la vita, rendendolo un tossico irrecuperabile, che incontra il figlio una volta alla settimana nel bar di Rosie (Rosanna Arquette), l’ex seconda moglie.
Frankie per tirare avanti, improvvisa piccoli furti ma soprattutto spaccia droga per Jarvis (David Pridemore) un piccolo boss locale. Senza una vera prospettiva, con la sorella che lo costringe a fare sostanzialmente da padre al nipote a causa della sua dipendenza dall’alcool, Frankie si trova la vita completamente stravolta dall’incontro con la bella Jane (Zoe Sidel), fotografa affetta da sordità.
Nel giro di poco tempo i due si innamorano, e quella relazione di base spingerà il ragazzo a rivedere le sue priorità, a confrontarsi con un’esistenza che si sta trascinando priva di ogni luce e speranza. Ma davvero può cambiare la sua vita? Davvero chi gli sta attorno glielo permetterà di farlo? E se stare con Jane alla fine limitasse quella ragazza dal raggiungere una felicità che lui invece non merita?
Signs of Love si fa forza di una sceneggiatura della Fuller che per quanto non un monumento alla creatività per quello che riguarda la sinossi in sé, dimostra invece di avere molto da dare per quello consta i personaggi, la loro evoluzione, la loro capacità di farsi portatori di un dramma del sottoproletariato, diventando simboli degli ultimi, quelli di cui il cinema americano raramente ama parlare. Qui invece si getta una bella luce su chi lotta ogni giorno contro il male di vivere declinato come condanna sociale.
Signs of Love potrebbe sembrare un teen movie o magari un film di formazione, ma la realtà è che si tratta di un dramma esistenziale privo però della retorica intimista fine a se stessa, ancorato alla realtà sociale, alla periferia, a quell’America che non piace a nessuno ma che si è ingigantita a dismisura.
Allo stesso tempo, si affronta il tema degli affetti e della visione della vita attraverso la lente d’ingrandimento della contrapposizione tra classi sociali, della diseguaglianza che rende sempre più ostico riattivare l’ascensore sociale.
Frankie da bambino era in una famiglia della classe media, il padre era un avvocato, poi dalla sera alla mattina si è trovato tra gli ultimi, quegli ultimi di cui Jane ma soprattutto la sua famiglia paternalistica, materialistica e incredibilmente ipocrita, non hanno che una vaga idea o immagine.
“Non ho avuto la tua vita, tua madre non ha mai provato a venderti per un po’ di crack?” chiede serafico ad un certo punto Frankie a quella ragazza che ama perdutamente, ma che vuole proteggere da ciò che è lui, da quella miserie umana e materiale che pare sia un morbo, possa attaccarsi a tutto e tutti.
Sings of Love ci parla dell’amore, ma in senso pratico, quotidiano, assieme anche universale ma non trascendente, come fare sovente le cose che non vogliamo o che la persona di fronte a noi non vuole perché così è giusto, perché amare significa anche sacrificare qualcosa per chi abbiamo di fronte.
L’altruismo abita in Frankie, che si aggira per una città maleodorante, calcinata, dove il sogno americano non esiste più, dove la pietà è morta e pure la speranza non sta molto bene. Solo la sincerità, il guardare oltre le apparenze paiono poter donare una qualche possibilità di salvezza all’umanità qui contenuta.
Signs of Love si pone come cinema indie 2.0, allo stesso tempo però si sottrae al flusso di coscienza, affronta il suo universo narrativo con piglio maggiormente europeo che americano, sfuggendo quasi sempre dall’ottimismo, dalla visione della vita come viaggio verso la speranza.
La regia della Fuller è molto intima, eppure discreta, non schiaccia i suoi protagonisti, ma li segue quasi con timidezza, mentre cercano di sopravvivere ad una vita segnata dalla mancanza di una prospettiva, sotto quel sole pallido che si staglia su palazzi in disfacimento, dentro stanze stagnanti e piene di squallore.
Dylan Penn è strano, con quel suo viso allungato, quasi da roditore che cerca una briciola di pietà, quel fisico magro e sgraziato e per questo perfetto assieme alla sua espressività, a quegli occhi disperati per questo personaggio, a questo ragazzo. Ha una presenza scenica anche superiore alla bellissima sorella, creatura sensuale pure quando è così ammantata di egoismo e perfidia come qui, perfetto ritratto di tante ragazze madri imbruttite dalla vita.
Bravissima anche Zoe Sidel, bellezza molto particolare, personaggio interpretato benissimo, quello di una ragazza sensibile, non così vulnerabile come sembra, ma capace piuttosto di capire il cuore che quel ragazzo disperato ha dentro di sé, ribelle verso la classe sociale di cui fa parte non per noia ma per empatia e senso della misura.
Signs of Love non riesce forse ad ampliare il proprio spettro semantico, manca qualcosa, una scena, un significato, una svolta che vada oltre ciò che vediamo, ma pure senza questo rimane un film molto ben congegnato e soprattutto coinvolgente, non ricattatorio.
Rimane il dubbio su cosa il film avrebbe potuto essere con un po’ più di ambizione oltre a quella di creare questo racconto della generazione disperata, ma anche così, è un film diverso dalla retorica con cui la gioventù di oggi viene sovente ritratta.