Quando si era sparsa la voce che sul mitico pistolero creato da Corbucci Sky avrebbe creato una serie tv, l’entusiasmo era stato palpabile, visto il risultato quasi sempre positivo di ogni creazione uscita dall’emittente di Murdoch per il piccolo schermo. Il cast poi anch’esso aveva contribuito non poco a generare ottimismo. Matthias Schoenaerts, Noomi Rapace, Tom Austen, Nicholas Pinnock, Jyuddah Jaymes, Eric Kole, e Lisa Vicari sono nomi non qualsiasi, e si vedevano premesse per avere un’altra grande serie tv per un genere, il western, che sta vivendo una seconda giovinezza negli ultimi anni. Invece… invece Django è una grande delusione, un prodotto mal concepito e mal scritto, che non mantiene nessuna promessa e si accontenta di tanta malriposta ambizione circa il risultato finale.
Nella cittadina di New Babylon, fondata dal visionario John Ellis (Nicholas Pinnock), ex schiavi, reietti, poveri di ogni sorta hanno trovato una nuova casa, in grado di offrire loro una possibilità di vivere in completa libertà, senza vincoli o catene, ancora presenti a dispetto della fine della guerra di Secessione.
In città arriva il misterioso Django (Matthias Schoenaerts), uomo pericoloso ma afflitto da un inquieto male di vivere e in realtà padre della caparbia Sarah (Lisa Vicari), la moglie di John, che però lo vede come il ricordo di un passato sanguinoso e doloroso.
La comunità di New Babylon è particolarmente invisa agli abitanti della vicina città, tra cui primeggia la sanguinaria e fanatica Elizabeth (Noomi Rapace) che armi alla mano pare decisa a eliminare quel gruppo di ribelli e a imporre il proprio volere. Tra agguati, misteri e un passato che ritorna, Django dovrà capire da che parte stare e come ricucire un rapporto, mentre Sarah e John invece lotteranno per non far scomparire il sogno di una città perfetta per tutti.
Django sposa da subito un ritmo compassato, lento, quasi meditativo, con cui sicuramente riesce a ottimizzare scenografie e costumi, a perseguire fino ad un certo punto la volontà di ricreare il West in tutto il suo splendore, per così dire.
Peccato che però alla fin fine questa serie, diretta nei primi quattro episodi di Francesca Comencini anche direttrice artistica, non lasci praticamente nulla di significativo allo spettatore, se non la certezza di avere di fronte un prodotto dall’identità incerta e dalla scarsissima possibilità di far legare il pubblico ai personaggi. La verità è che questa è una serie che soffre di una mancanza di genuinità non da nulla, così come di una scarsa profondità e complessità nei personaggi, nelle motivazioni, nel loro iter ed interazione con l’universo narrativo che li circonda.
Uno dei primi problemi che si devono affrontare con Django, è nel tono generale, che vorrebbe essere tragico, violento e truce, e invece appare connesso ad una pesantezza gratuita per la scarsa cura estetica, l’insensibilità dell’insieme che scambia il silenzio per essenzialità, che spinge verso un’epica e una dimensione di conflitto generale abbastanza sterile.
I dialoghi sono davvero malfatti, mal congegnati, appiccicati addosso a personaggi che alla fine risultano indistinguibili gli uni dagli altri, con una narrazione sovente contraddittoria, che va per le lunghe in momenti davvero poco rilevanti e accelera in modo stranissimo dove invece vi sarebbe l’occasione di un confronto tra le parti di maggior interesse.
Il Django di Schoenaerts appare inspiegabilmente ricco di un passato che nel film originale del 1966 era totalmente assente o quasi e costituiva una delle caratteristiche più affascinanti di questo giustiziere, di base una variazione di enorme impatto del classico “Straniero Senza Nome” precedente anche al ciclo del Dollaro di Leone. Volontà di renderlo più umano ed empatico? Sarà… ma qui intanto abbiamo a che fare con un eroe che appare fragile, piagnucoloso, ben distante dal freddo ammazzasette feroce e istintivo che consegnò Franco Nero alla leggenda.
Non va meglio alla villain interpretata da una Noomi Rapace che esibisce la solita classe glaciale, ma che è limitata in modo feroce da una regia della Comencini davvero troppo statica, troppo scolastica, che invece di esaltarne l’espressività la mortifica. Il resto appare un esercizio sterile di omaggio a un genere, lo spaghetti western, che viveva di creatività, di autoironia sovente oscura, di una violenza connessa alla spettacolarità fantasiosa. Qui invece tutto è prevedibile, tutto è statico, tutto diventa sempre più pesante e privo della necessaria e cinica volontà realistica, quasi che si volesse inseguire un’epica non necessaria, una dimensione metaforica della storia americana, ancora oggi divisa in razze e contrapposizioni materiali.
Django a mano a mano che va avanti appare sempre più sconnessa, sempre meno capace di delineare qualcosa in più di una serie di singole sequenze, avvolta da una volontà di creare un melodramma di cui nessuno si auspicava la presenza, non con queste modalità almeno.
Vi è come una generale impressione di incuria nei personaggi, nello script, e non bastano le scenografie, i costumi, a compensare contraddizioni, dialoghi senza costrutto, azioni contraddittoria e una colonna sonora che appesantisce ancora di più l’atmosfera.
Se pensiamo a come capolavori come Hells on Wheels o 1883 ci hanno saputo raccontare il West in modo diverso eppure di grande profondità, Django a confronto pare fare il verso a pellicole poco riuscite perché arretrate come fu Jonathan degli Orsi, che però almeno ambiva ad affrontare temi importanti.
Qui siamo inferiori persino a The Harder They Fall, non parliamo di perle come Old Henry o Notizie dal Mondo, forse perché in realtà lo spaghetti western se lo vuoi fare devi saperlo fare, è troppo legato ad un determinato stile ed epoca, se invece lo vuoi superare devi avere qualcosa da offrire in cambio.
Django non ce l’ha, ha solo un sacco di presunzione, un West domato a finalità oscure e inconcludenti, ad una recitazione sempre troppo sopra le righe, che affossa ogni spontaneità, con personaggi monodimensionali e senza fascino.
La scrittura è la chiave e qui la scrittura è veramente scarna, troppo elementare dal punto di vista semantico, crea le premesse per un pastiche senza una vera identità forse perché ne vuole avere fin troppe e quindi non riesce ad essere concreta.
Alcune scene appaiono non solo poco indovinate ma al limite del cringe, quasi si volesse stupire per forza con toni ed effetti che però più che impressionare, danno fastidio, così come insistere nel declinare tutto in una dimensione femminile davvero semplificata. Una serie che si poteva anche evitare di fare.
La serie esordirà nel 2023 in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW.