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Dampyr, così nasce il Bonelli Cinematic Universe: la recensione

Pubblicato il 27 ottobre 2022 di Lorenzo Pedrazzi

Il modello dei Marvel Studios continua a fare proseliti, ma non era scontato che accadesse anche in Italia, dove il cinema commerciale “medio” fatica parecchio a espandere i suoi confini. La nuova etichetta Bonelli Entertainment, come la Goon Films di Mainetti e la Groenlandia di Rovere/Sibilia, rappresenta però un solido tentativo di esplorare i generi, con un piglio ancora più internazionale rispetto alle altre case di produzione. D’altra parte, i fumetti Bonelli sono tradotti in numerose lingue, e formano una costellazione di personaggi che, pur senza condividere sempre il medesimo universo narrativo, possono coesistere in una strategia produttiva a lungo termine. Nasce così, con Dampyr, il Bonelli Cinematic Universe, progetto ambizioso che mira a raccogliere tutti gli adattamenti cine-televisivi (animati e in live-action) del neonato studio milanese.

Il fumetto di Mauro Boselli e Maurizio Colombo offre a Bonelli l’opportunità di inaugurare il suo universo cinematografico con un personaggio non troppo rischioso, perché basato su topoi già riconoscibili dal grande pubblico. Harlan Draka è infatti un cacciatore di vampiri mezzosangue, un po’ come il Blade marvelliano, e affronta mostri di vario genere in atmosfere che spaziano dall’horror al noir. La peculiarità, se pensiamo al film dell’esordiente Riccardo Chemello, risiede nell’ambientazione: ci troviamo infatti nei Balcani dei primi anni Novanta, durante le famigerate guerre jugoslave. Harlan (Wade Briggs) è un ciarlatano che gira di villaggio in villaggio con il suo socio Yuri (Sebastian Croft) e finge di liberare le popolazioni locali dai vampiri, facendo leva su antiche credenze popolari. I mostri, però, esistono veramente, e quando il comandante Emil Kurjak (Stuart Martin) assiste al massacro di alcuni membri della sua squadra da parte di tali creature, manda a chiamare Harlan per vedere cosa può fare. Il nostro scalcinato eroe non pensava di dover affrontare dei veri succhiasangue, e scopre il suo diritto di nascita: è un dampyr, quindi destinato a combattere i vampiri.

Lo schema di fondo non è diverso da altre narrazioni action-fantasy. C’è un prescelto, ci sono i mostri che predano umani (più o meno) innocenti, e c’è un antagonista principale che muove i fili, peraltro con una caratterizzazione estetica che rimanda ai cattivi di Underworld e al Thomas Ian Griffith di John Carpenter’s Vampires. In effetti, Dampyr rievoca certe tendenze dei primissimi anni Duemila, ma rispetto ai blockbuster hollywoodiani più fuori tempo massimo (come Morbius) non ha bisogno di 70/80 milioni di dollari per confezionare la sua visione. Il mezzo miracolo di Bonelli Entertainment, Eagle Pictures e Brandon Box è soprattutto questo: con un budget di 15 milioni, riescono a imbastire una produzione tecnicamente validissima, grazie a professionisti di assoluto rilievo negli effetti digitali, nel trucco, nella fotografia e nelle scenografie. Molti di loro vantano esperienze di altissimo livello – Giorgio Gregorini, ad esempio, ha vinto l’Oscar per Suicide Squad – e si vede.

Dampyr, insomma, passa tranquillamente l’esame della credibilità internazionale, con risultati di gran lunga migliori rispetto ad altre produzioni che ambiscono allo stesso mercato. Il suo limite, se mai, è nella scrittura. Pur senza grossi scivoloni, la sceneggiatura non infonde abbastanza spessore al passato di alcuni personaggi (esemplare il rapporto affettivo tra Harlan e Yuri), sprecando così le potenzialità del climax. Manca quindi una sana dose di pathos nelle scene madri, qualcosa che ci faccia davvero parteggiare per questi personaggi, anche perché gli sviluppi dell’intreccio sono abbastanza prevedibili. Lo stesso contesto geografico, teoricamente ricchissimo di implicazioni storiche e folcloristiche, viene lasciato soltanto come sfondo, senza entrare nel merito né del conflitto né della cultura locale.

È liberatorio, però, rivedere finalmente un eroe che non si fa problemi a fumare, bere e usare il turpiloquio, abituati come siamo al moralismo dei cinecomic statunitensi. Dampyr incarna quella via italiana al blockbuster già battuta da Freaks Out, digeribile dalle platee internazionali – che vi riconosceranno un linguaggio globalizzato – ma con qualche sfumatura originale. Certo, si potrebbe discutere sull’appiattimento dei modelli narrativi, che scimmiottano quelli americani con poche variazioni: i fumetti Bonelli non ne avrebbero bisogno, essendo già dotati di una forte personalità. Dampyr è un buon primo passo sul piano tecnico e spettacolare, ma il Bonelli Cinematic Universe farebbe meglio a individuare un proprio codice espressivo, figlio della sua prestigiosa storia editoriale. Così facendo, potrebbe davvero guardare al futuro della cultura popolare, invece di accontentarsi di replicare il passato.