Butcher’s Crossing è il western che cambia pelle, la recensione

Butcher’s Crossing è il western che cambia pelle, la recensione

Di Giulio Zoppello

Quando nel 1960 uscì Butcher’s Crossing, la critica letteraria si divise tra chi lo considerava un tentativo maldestro e poco riuscito di creare un iter trascendente dal mito della frontiera, e chi invece lo salutò come un romanzo in grado di parlare in modo perfetto del rapporto conflittuale tra uomo e natura, individuo e società e soprattutto di distruggere la retorica che ancora circondava la conquista del West.

Presentato quest’anno a Toronto, Butcher’s Crossing è un film western interessante, ben diretto, ottimamente recitato e che non molla per un secondo lo spettatore, assediandolo con un’atmosfera cupa, viscerale, carica di una tensione quasi insopportabile. Senza dubbio uno dei più bei western degli ultimi anni.

Un ragazzo perso nelle Grandi Pianure

Il giovane Will Andrews di continuare a studiare ad Harvard non ha proprio voglia. Nell’America del 1874, mentre la tragedia indiana si comincia ad avviare verso la sua conclusione, Will molla tutto quello che ha a Boston e decide di aggregarsi a chiunque gli permetta di assistere ad una vera caccia al bufalo.

L’animale che un tempo dominava le grandi pianure ormai vive i suoi momenti più drammatici, viene massacrato per la pelliccia, per affamare i nativi, e Will vuole capire che cosa significa sparare a quei bestioni nell’Ovest selvaggio.

A permettergli di realizzare il suo sogno trova il duro e scafato cacciatore Miller (Nicolas Cage), che in breve tempo mette su una squadra di cui fanno parte il vecchio, alcolizzato e fanatico religioso Charley Hoge (Xander Berkeley) e l’imprevedibile Fred Schneider (Jeremy Bobb).

Assieme si mettono in viaggio verso il Colorado, tra le montagne in cui vi sono ancora bufali non fiaccati dalla caccia e dal rigore degli ultimi anni, con pellicce spesse e pesanti. Ma fin da subito la spedizione mette a durissima prova i suoi componenti, con sete, disperazione, solitudine e tensione, fino a quando, giunti alla meta, comincia il massacro dei bisonti.

Sarà solo l’incipit di una totale alienazione, di una terrificante avventura al termine della quale, nulla per Will e gli altri sarà più lo stesso, costretti a confrontarsi con il peggio delle proprie anime.

Butcher’s Crossing è un western potente, diverso per estetica e finalità da tutto ciò che questo genere ultimamente ci ha offerto, sia per quello che riguarda l’intento iperrealista di opere come Hostiles, The Revenant, Open Range o Appaloosa che di film come Caccia Spietata o The Missing, più protesi ad un versante esistenziale o filosofico. Qui vi è invece la volontà sia di onorare i temi cari a John Edward Willis, sia creare un film in grado di dirci cos’era veramente il West, questo luogo reso mito oltre i propri meriti, inferno da cui spuntò l’America ipocrita e violenta che permane ancora oggi.

Un Western che parla della Storia americana

Butcher’s Crossing occorre dire che esteticamente è un piccolo gioiello, grazie non solo alla regia e alla bellissima opera di rimaneggiamento (in realtà limitato) della trama di Willis, ma anche grazie ad una fotografia di David Gallego di enorme qualità.

Le Grandi Pianure, la Mesa dentro cui Will e gli altri si perdono e vengono inghiottiti dal proprio animo furente, è un meraviglioso contenitore né ostile né amichevole, semplicemente assiste ai loro misfatti, alla loro sofferenza, alla cupidigia che li strangola.

Nicolas Cage in particolare, rende l’insieme sempre più connesso a Cuore di Tenebra di Conrad e omaggia con grande classe e rispetto il Kurtz di Brando ma non solo, si pone come totem di tutti i personaggi in grado di farsi simbolo di quell’umanità fatta di avidità, prevaricazione, materialismo, rabbia, di amore per il potere della violenza, che poi in fondo potrebbe essere la perfetta descrizione di ciò che furono i pionieri che distrussero gli indiani e quasi 60 milioni di bisonti.

Apparentemente villain ma in realtà il vero ribelle della comitiva è invece il collerico Fred di Jeremy Bobb, tanto insopportabile, provocatore, cinico, quanto in realtà simbolo del pensiero indipendente e coerente, di chi guarda alla realtà per quello che è, per quanto egoista in realtà è l’unico che sappia quando fermarsi o quasi. Esattamente all’opposto vi è la religiosità bigotta e falsa dell’Hoge di Berkeley, l’anima acida, crudele, priva di empatia e sensibilità, l’alibi trascendente con cui l’America col sorriso sulle labbra compiva e compie i peggiori misfatti. Tutti loro sono sotto gli occhi di Will, che cerca nobiltà, bellezza, che non conosce nulla di come va il mondo e lo scopre nel modo peggiore. Tutti assieme sono maschere, simboli, rappresentazioni storiche di un paese, i mille volti di come l’uomo possa interagire con la natura, con il suo simile, senza che nessun estremo venga risparmiato o venga nascosto.

In questo, Butcher’s Crossing si può fregiare di una coerenza interna incredibile, di una capacità di regalare un crescendo diegetico di enorme spessore, passando dall’essere una semplice rappresentazione di un periodo storico e di un eccidio, a metafora dalla plurima identità.

Un film sull’esistenza e la società umana

Il film ci offre uno sguardo privo di ogni retorica sulla vita terribile che affrontava chi si avventurava per quei grandi spazi all’epoca, ed in questo, nonché nel ritmo, nello staccarsi dalla dimensione action per parlarci di quanto l’uomo cambia in certi frangenti, è molto simile a quel capolavoro che è 1883 di Sheridan.

Cage troneggia su tutti, il suo personaggio è ipnotizzante, un leader risoluto ma animato da un egoismo spaventoso, mai veramente mentore di quel ragazzo perso dentro un’avventura che non ha mai compreso, se non nei suoi aspetti più romantici e per questo votati ad una sconfitta senza appello di fronte alla crudeltà dell’uomo, al suo rapporto osceno con la natura.

Will cerca trascendenza e bellezza, finisce a scuoiare animali coperto di sangue, mentre tutto attorno a lui diventa morte, pellicce che si ammassano come i peccati di una nazione che parlava di libertà e ne privava i suoi legittimi abitanti.

I bisonti come i castori, come i dodo, come il rinoceronte nero o le tigri, sono i corpi su cui applichiamo la nostra supremazia biblica, il credo mortuario con cui l’uomo distrugge qualcosa e poi passa secoli a rimpiangerlo. Vale per i bisonti come per gli indiani, ma intanto ecco che vediamo nel fucile di Cage, lo sharp che era simbolo di un mestiere, il prolungamento del corpo di una nazione basata su un individualismo sfrenato, un concetto di libertà tossico e amorale.

Intanto, ecco che Will si guarda da fuori, impara non dai pregi ma dai difetti di chi lo circonda, che tutto è mutevole e non dura, il mercato delle pellicce e le stagioni, che dominano una società dell’uomo che è descritta come letamaio morale e materiale, assenza di virtù.

Un western grande perché umile, votato a parlarci di un passato scomodo, forse il migliore degli ultimi anni assieme ad Old Henry, né crepuscolare né classico, quanto sperimentale nella volontà di parlarci di chi erano, come vivevano e morivano i padri oscuri della nazione. 



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