Amsterdam: la recensione del film di David O. Russell

Amsterdam: la recensione del film di David O. Russell

Di Giulio Zoppello

Per chi comprende anche solo minimamente cinema e il pubblico americani, non stupisce troppo che Amsterdam stia facendo registrare incassi bassissimi e che sia considerato uno dei flop più dolorosi degli ultimi anni. In effetti il film di David O. Russell mostra di avere un’identità assolutamente indistinta, scegliendo non cosa essere ma cosa non essere, e in base a tale decisione abbraccia quindi un’atmosfera indefinita, difficilissima da inquadrare.

Ma forse proprio per questo risulta da certi punti di vista originale, per quanto non riuscito fino in fondo. Quel che è certo è che è un film che cerca di parlare di temi molto seri senza prendersi seriamente, ma non è detto che questa scelta sia poi così sbagliata.

Due reduci persi dentro uno strano complotto

Vita difficile per non dire umiliante quella di Burt Berendsen (Christian Bale) che combatte contro dolore ed umiliazione come capita a milioni di reduci americani del primo conflitto mondiale, abbandonati e trattati come reietti da un paese che in quegli anni ‘30, appare incerto su che tipo di identità abbracciare.

Burt ha perso un occhio in Belgio e deve convivere con le ferite e un matrimonio ormai fallito con l’altezzosa e insensibile moglie Beatrice Vandenheuvel (Andrea Riseborough) e con l’infermiera Irma St. Clair (Zoe Saldana) che cerca di consolarne la vita grama. Berendsen viene chiamato da Elizabeth Meekins (Taylor Swift) per indagare assieme all’amico ed ex commilitone Harold Woodsman (John David Washington) sulla sospetta morte del loro ex Generale, il saggio senatore Bill Meekins (Ed Begley Jr).

Ben presto però, i due si troveranno invischiati in un complicatissimo dedalo di segreti, cospirazioni e omicidi, dove scopriranno coinvolta anche Valerie Voze (Margot Robbie), ex infermiera, amica di Burt e vecchia fiamma di Harold.

La realtà è che non sanno di chi fidarsi, né dell’influente fratello di Valerie, Tom (Rami Malek) o della sua fidanzata Libby (Anya Taylor-Joy), così come degli agenti segreti Henry (Michael Shannon) e Paul (Mike Myers). Forse solo il leggendario Generale Gil Dillenbeck (Robert De Niro) può essere degno di fiducia, ma il dubbio e l’incertezza regnano sovrani mentre il paese pare sull’orlo della guerra civile.

Già da queste poche righe è facile comprendere come Amsterdam sia un film che fa dell’intreccio la propria risorsa principale, in virtù di un cast numerosissimo e nutrito, che la sceneggiatura di David O. Russell cerca di armonizzare con una trama che unisce verità storica con fantasia ucronica.

In particolare appare evidente il riferimento al Wall Street Putsch, la macchinazione con cui poteri conservatori ed eversivi negli Stati Uniti del 1933, cercarono di imporre una dittatura negli USA, guidata da qualcuno che mobilitasse i veterani del primo conflitto mondiale. Vi suona familiare? Si esatto, come successo con Mussolini ed Hitler, e del resto due anni fa, una serie come Il Complotto Contro l’America aveva già mostrato in modo stupendo.

Un cast nutrito per un iter labirintico

Amsterdam è uno di quei film che riesce a conquistare in virtù del suo essere un’opera assolutamente divisiva, sia dal punto di vista formale che visivo, ma soprattutto per la struttura narrativa e semantica. David O. Russell decide di prenderci per mano e mostrarci non solo una parte di storia americana che pochi altri film hanno trattato, ma di creare un parallelo lungo 100 anni, tra ciò che era l’America dopo il primo conflitto mondiale, nel momento in cui la crisi del ‘29 imperava e forze antidemocratiche cercavano di prendere il possesso, e quella dei nostri giorni.

Negli ultimi anni bene o male essa è stata sovente ad un passo da un percorso eversivo e completamente privo di morale, coinciso con una conflittualità sociale altissima. All’epoca non era poi così diversa la situazione generale. Il problema quando si parla di questo film però, è nel fatto che di base si ha come l’impressione che Russell non abbia completamente deciso che tipo di creatura Amsterdam dovesse essere, oppure che abbia optato per una personalità multipla, con però ha come conseguenza ultima il fatto di non riuscire a rendere l’iter narrativo abbastanza sviluppato, né abbastanza comprensibile ad un pubblico generalista.

Si può senz’altro sostenere infatti che Amsterdam sia tutto tranne che un film fatto per il grande pubblico, con il suo stile pittoresco, burlone ma non troppo, una messa in scena sovente teatrale e per questo distante dal dinamismo moderno.

Si ride spesso ma in modo anche abbastanza irregolare, ci si commuove ma non eccessivamente, in un mondo che pare sbucato da una belle époque tornata in vita, con la Generazione Perduta che torna a reclamare quel futuro che le fu strappata dalle trincee.

Certo, spesso si rimane incantati ad ammirare una Margot Robbie così bella come non l’avevamo mai vista, così come l’ennesima trasformazione fisica di un Christian Bale incredibilmente convincente; ma del resto tutto il cast si impegna nel delineare personaggi dentro cui si muove un simbolismo interessante e quasi sempre riuscito.

Un film dalla chiara identità politica

Se fosse questa la finalità ultima del regista oppure meno è tutto da comprendere, ma di certo Amsterdam è un’opera che strizza molto l’occhio ad un certo cinema autoriale che ha reso leggende i fratelli Coen, così come Wes Anderson.

Si potrebbe anche parlare di una sorta di omaggio, se non fosse che Russell rispetto al suo passato, a film come Joy, The Fighter o American Hustle, cambia completamente il modo in cui guida e dirige il suo cast e lo usa, di base inglobandoli in una sorta di danza impazzita, un jazz troppo bello (per citare George Foreman) e personale per poter piacere a tutti.

Soprattutto, cambia completamente sempre sul più bello atmosfera, ritmo narrativo e anche identità, sposa ora il thriller ora la commedia, passa per la spy story e vira verso il film di rievocazione storica o sarebbe meglio dire semi-storica.

Amsterdam ad ogni modo affronta in modo diretto l’anima fascista e reazionaria dell’establishment economico e produttivo americano, che a quel tempo cercava in tutti i modi di fermare Roosevelt, ed il suo Big Deal, così come le prime manifestazioni di quella volontà di libertà delle minoranze.

Succedeva allora così come ai nostri giorni, e bene o male i conservatori in America si sono sempre legati al concetto di uomo forte, di una leadership che ha trovato nell’assolutismo o simili la chiave per un aggiramento dei limiti costituzionali.

Non occorre fermarsi al complotto che allora cercò di rendere gli USA simili alla Germania, basta pensare alla teoria dell’esecutivo prioritario durante la Presidenza di George W. Bush, o a ciò che Donald Trump è stato in grado di fare, perché la realtà è che in America il Capitale ha sempre imposto la sua legge sull’uomo, secondo Russell, cambiando tattica ma non finalità.

Tuttavia questo rimane un film che forse cerca di essere troppe cose contemporaneamente e quindi non può essere veramente nessuna, talvolta più che annoiando, confondendo lo spettatore, rendendogli difficilissimo apprezzare la comunque raffinata dimensione visiva e un cast ottimamente scelto.

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