Brendan Fraser, alla fine, ha vinto. Indipendentemente da come andrà la stagione dei premi, che comunque non ha niente a che fare con il reale valore di un’interpretazione, Fraser ha già vinto. Ogni singola inquadratura di The Whale è il trionfo di un attore che si riscatta dopo anni di depressione, problemi fisici e marginalizzazione da parte di Hollywood, spietato tritacarne che dimentica le sue star con la stessa facilità con cui le esalta. Ma Darren Aronofsky non si era affatto dimenticato di lui, e il film è una riscossa anche per il suo cinema.
Per certi aspetti, The Whale è un’altra parabola votata all’autodistruzione, come The Wrestler e Black Swan, ma stavolta la spirale di morte non è innescata dall’ossessione. Al contrario, sono l’amore e il desiderio di redenzione a guidare le scelte di Charlie, uomo che soffre di grave obesità (pesa circa 270 chili) e vive da solo nel suo appartamento, dove tiene lezioni di scrittura on-line per l’università. L’amica infermiera Liz (Hong Chau) gli fa visita per curarlo e tenergli compagnia, ma Charlie respinge le sue esortazioni ad andare in ospedale, nonostante la pressione altissima rischi di ucciderlo nel giro di pochi giorni. L’unica cosa che gli importa è riconciliarsi con la figlia Ellie (Sadie Sink), sedicenne problematica che lo accusa di averla abbandonata otto anni prima, quando Charlie si innamorò di uno studente e andò a vivere con lui. Fu proprio la morte di quest’ultimo a farlo precipitare in una spirale di alimentazione compulsiva.
Le unità di luogo e di azione vengono direttamente dalla pièce teatrale di Samuel D. Hunter, anche sceneggiatore. L’intero film si svolge nell’appartamento di Charlie, confinato da Aronofsky in un formato 4:3 che limita ancora di più la sua stazza, e spesso lo porta a occupare lo schermo per intero. L’impatto con il protagonista è traumatico e brillante, poiché ci consente di scoprire moltissimo di lui nel giro di una sola inquadratura: da lì in poi, Aronofsky ci mette poco per sfondare il muro dello spettatore, inizialmente straniato dal personaggio. E il merito è anche dello stesso Fraser, perché The Whale è davvero un atto d’amore sul suo sguardo tenerissimo e dolente. Emerge dai 136 chili di lattice che lo hanno appesantito durante le riprese, e riflette la straziante umanità di un uomo che cerca spiragli luminosi persino nei coni d’ombra più densi.
I cinque anni di pausa da Madre! hanno giovato ad Aronofsky, che torna con una regia più pulita e calibrata, meno tendente ad autocompiacersi. La macchina da presa – con la plumbea fotografia di Matthew Libatique – è tutta al servizio del protagonista, che lotta contro limitazioni fisiche e interpersonali per espiare le sue colpe. Così, mentre il confine tra arte e vita si assottiglia, Fraser combatte insieme a lui: interiorizza il dolore, la fatica e la frustrazione, ma al contempo lascia trasparire una dolcezza commovente che pare sopravvivere a ogni traversia. È proprio questa purezza a spiazzare gli altri personaggi, in primo luogo Ellie e l’ex moglie Mary, interpretata da Samatha Morton. Come Charlie non chiede pietà per sé stesso, The Whale non suscita alcun pietismo, ma ritrae la complessa umanità del protagonista ben al di là della sua condizione.
Hunter dimostra così di saper dare una natura contraddittoria ai suoi personaggi, e di poter avvincere il pubblico con un racconto che non esce mai dalle quattro mura, ma sfrutta i limiti spaziali per concentrare e intensificare le emozioni: ogni reazione è spropositata, ogni confronto rischia di degenerare in litigio, e persino i semplici movimenti di Charlie da una stanza all’altra generano tensione. Poco importa, allora, che il parallelismo tra il protagonista e Moby Dick sia didascalico, quando Charlie insiste a leggere un tema sul capolavoro di Melville (il cui ruolo metonimico, peraltro, si rivela molto importante). Gli sforzi sul volto di Brendan Fraser sono i segni di una battaglia che supera i margini del quadro, testimoni di un riscatto durissimo ma meritato. Sì, Fraser ha vinto, ed è un trionfo sfavillante.