Spettri dell’anima: la recensione di The Eternal Daughter da Venezia 79

Spettri dell’anima: la recensione di The Eternal Daughter da Venezia 79

Di Lorenzo Pedrazzi

Esiste una tradizione letteraria anglosassone, capeggiata da Henry James e M.R. James, che ritrae i fantasmi non solo come manifestazioni del meraviglioso e del sovrannaturale, ma delle zone più oscure della psiche umana. In fondo, gli spettri sono sempre stati delle ottime metafore: rievocano paure ancestrali, costringono personaggi riservati a confrontarsi con l’ignoto, danno forma a colpe, rancori e memorie del passato. È la stessa scuola in cui ha studiato anche Joanna Hogg, il cui The Eternal Daughter – pur essendo una sceneggiatura personalissima e originale – rimanda proprio alle atmosfere delle classiche ghost story britanniche.

Tilda Swinton interpreta due ruoli: quelli di Julie e Rosalind, una cineasta professionista e sua madre, entrambe ospiti di un hotel nella campagna gallese. Si tratta dell’imponente magione in cui è cresciuta l’anziana donna, che tuttora conserva molti ricordi legati a quel luogo, non tutti piacevoli. Julie comincia a sentirsi in colpa per averla portata laggiù, e inoltre percepisce una strana presenza che aleggia tra le mura, o forse dentro sé stessa.

The Eternal Daughter cela già nel titolo la sua chiave psicologica: Julie è una “figlia eterna” perché non ha mai smesso di essere tale, non ha mai abdicato a quel ruolo. Pur avendo una sua famiglia (è sposata) e una carriera di prestigio, la donna sente con la madre un legame simbiotico, e atteggia una sollecitudine che sfiora la morbosità. Ma perenne è anche la natura del fantasma, intrappolato nel suo eterno ritorno di tormenti e situazioni irrisolte. Hogg lo capisce benissimo, e struttura il film attraverso la ripetizione di eventi precisi: le uscite notturne con il cane, le apparizioni spettrali alla finestra, le cene con la madre, le interazioni surreali con una receptionist malmostosa (Carly-Sophia Davies).

Non sembra esistere alcuna realtà al di fuori del lugubre hotel, immerso in un’atmosfera sospesa e sulfurea, con il sibilo del vento come unica colonna sonora. The Eternal Daughter non è un horror, e il fantasma – ammesso che sia giusto considerarlo tale – è il riflesso di un’angoscia interiore; eppure, il film genera una sottile inquietudine che nasce dall’arcano, dall’idea di una verità oscura e inconoscibile, nascosta fra le pieghe del silenzio. Certo, il colpo di scena è prevedibile, e anche l’epilogo metanarrativo ha qualcosa di scontato (per non dire semplicistico). Si percepisce però, da parte dell’autrice, un’intima esigenza di raccontare questa storia per rielaborare il suo vissuto, che poi è una delle funzioni salvifiche dell’arte. La mirabile performance di Tilda Swinton fa il resto, anche perché The Eternal Daughter si consuma interamente sul suo sguardo ansioso.

Pur non essendo pienamente riuscito, si lascia dietro una sensazione intensa e duratura.

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