Cate Blanchett, ospite tra le più amate del Lido veneziano, torna a far visita alla Biennale. Stavolta non come Presidentessa, ma come protagonista di Tár, firmato da Todd Field, alla sua terza opera da regista e ancora una volta con un film viscerale, problematico, scomodo, ma assolutamente ipnotizzante.
Per la diva sicuramente un’interpretazione tra le sue migliori e una grande ipoteca sulla Coppa Volpi, in virtù di una capacità unica di connettersi a un personaggio femminile di enorme complessità e fascino, che ci guida in un viaggio dentro la moralità (o l’amoralità) dei tempi moderni, in un mondo fatto di cultura e ambizione, ipocrisia e bellezza, egocentrismo e sacrificio. Non un film per tutti, forse troppo lungo, ma non un film che può lasciare indifferenti, soprattutto per il rispetto che mostra verso i suoi personaggi, per la sua audace metafora sull’anarchia morale dei nostri tempi.
Lydia Tár (Cate Blanchett) non è una donna come le altre. Nessuna compositrice e direttrice d’orchestra è mai stata tanto rinomata, premiata, osannata e ammirata nel mondo. Orgogliosamente lesbica, dotata di incredibile fascino, vanità, carisma e di un genio artistico semplicemente titanico, la Tár è però anche una donna dotata di prevedibilissimi difetti.
Autoritaria, si considera una diva e ne ha tutti i capricci, a stento tenuti a bada dalla sua fida segretaria Francesca (Noémie Merlant) e dalla sua fidanzata e prima violinista (Nina Hoss), che devono di volta in volta cedere sempre qualcosa. Lydia si sente una donna nel pieno della sua realizzazione, è direttrice della rinomata Orchestra di Berlino, alle prese con un’incisione dal vivo che dovrebbe coronare una carriera assolutamente unica.
Tuttavia, proprio quella registrazione, nonché l’arrivo di una nuova violoncellista nell’Orchestra, saranno il primo tassello di un crescendo di difficoltà e di errori che cominceranno a farsi strada nella sua esistenza, portandola ad un punto di rottura totale. Intanto, la musica domina, la musica avvolge tutto e tutti, è il minimo comun denominatore di una realtà in cui non esistono sentimenti, non esistono amori o fedeltà, una corte bizantina in cui tutti sono possibili nemici.
Tár, stando alle dichiarazioni di Field, è un film che esiste solo in funzione di Cate Blanchett, altrimenti non vi sarebbe stato nulla ora. Discutibile? Forse, ma di certo è nello spirito di questi tempi, in cui il cinema si protegge in modo deciso usando nomi di richiamo per permettere all’autorialità di esprimersi in libertà, senza doversi frenare. Lo abbiamo visto in Joker, nel Batman di Reeves, in El Beun Patron, e Tár appartiene a questa famiglia, rivendicando temi scomodi, attuali ma presentati sotto una forma inusuale e per questo da non sottovalutare. Il risultato è mostrato con sguardo freddo e compiaciuto da Field, che ama metterci a disagio, non darci alcuna consolazione, ma soprattutto disprezzare con gusto quest’epoca di fanatismi un tanto al chilo.
A molti Tár ricorderà per certi aspetti The Company di Altman, forse il film più vero, puro e crudo sull’eccellenza artistica che celebra se stessa, sulla natura di questo universo ad un tempo elevato e bassissimo, connesso al meglio e peggio di chi dedica la propria vita all’arte. Emerge anche, per la natura torbida e spesso tossica dei rapporti, qualche fragranza che può riportare alla memoria Il Cigno Nero di Aronofsky, ma poi Field in realtà si stacca dal puro racconto intimista, il suo è un universo micro che si collega al macro in modo trasversale.
Si parla di questo mondo artefatto, per parlare del nostro, soprattutto del rapporto tra moralità e arte, qualcosa che è all’ordine del giorno, sia per la nostra quotidianità che per quello che riguarda il passato, per molti oggi non più potabile in virtù di una visione che Tár fin da subito reputa inaccettabile. Oppure no?
Cate Blanchett è moderna e antica assieme, è una donna indipendente, bella, forte, carismatica, di successo e che si è conquistata con le unghie la sua posizione in un ambiente maschile ma non poi così maschilista come potrebbe apparire. Semplicemente è un ambiente classista, spietato, altolocato, una Corte di Bisanzio nel cuore teutonico della melodia, di cui lei è volto moderno ma anche custode del passato da proteggere dagli strali delle nuove generazioni, puritane, narcisiste senza grazia, tutte prese dall’essere ribelli di una qualche causa. Lei, lei invece è conservatrice in modo coerente e selvaggio, ma assieme serve la musica al di sopra di tutto, la possibilità di regalare un’emozione universale e per questo scevra da ogni proprietà.
Forse per questo non si riesce a odiarla mai completamente, anche se andando avanti si comprende (ed è qui il grande merito di questo film) che, maschile o femminile che sia, ogni ambiente risponde a mere logiche di potere che si ripetono all’infinito. Si parla di sesso pur se non si mostra mai, ma è sempre dietro il suo podio, nel suo sguardo, nelle vecchie amanti e nella possibilità delle nuove. Freud diceva che tutto nella vita riguarda il sesso, tranne il sesso. Il sesso riguarda il potere. Tár questa verità la rende palese di minuto in minuto, persa tra note, spartiti, antichi peccati e un lusso tanto freddo quanto opprimente.
Cate Blanchett è l’asse portante di un film che però ha il pregio di non adagiarsi esclusivamente su di lei. Perché Tár rende anche chi le sta attorno fondamentale nel descrivere lei e gli effetti che lei ha sul mondo, su quell’orchestra che comanda come un generale visionario, sull’ambiente di riferimento fatto da gente che la invidia o la detesta, sulla sua incapacità di vedere una minaccia che lentamente prenda forma.
Gli uomini o le donne di potere non cadono mai per come lo esercitano nella propria funzione, ma per come ne fanno uso al di fuori di essa. Questa verità Tár la rende perfettamente evidente, mentre seguivamo Lydia, con i suoi abiti su misura, le piccole prepotenze verso chi la ama, i suoi rituali semi-pagani con cui cerca di replicare la perfezione.
E poi c’è la musica. Essa è il vincolo di sangue di persone che altrimenti manco si guarderebbero in faccia, l’Orchestra è un ecosistema indipendente in cui chi ha potere è vulnerabile, nascondersi nella massa è il modo migliore per sopravvivere. Strano, vero? Eppure è così, perché cadere dall’alto è così semplice, così facile, uomini e donne che guidano suoni con le mani che vanno e vengono, sperano nell’immortalità che non è più di questo mondo, di questi social e video, di queste email.
L’arte o la moralità? Oppure l’arte e la moralità? Tár ci risponde con Lydia, con la sua imperfezione di essere umano inevitabile rispetto alla necessità di sposare una missione che la rende differente dalle persone comuni per stile di vita e idee. Non si può essere santi e poeti assieme, e la tragedia dei nostri tempi è pretendere la perfezione da esseri umani, non separare la magia dell’opera dalla fallacità della vita. Lydia non è una brava persona, ma è una grande artista. Rifiutare l’arte di persone imperfette è mentire circa la natura dell’essere umano. E mentre il suono acquista una centralità totalizzante dentro e fuori la sua vita e la narrazione, noi la seguiamo mentre vince e perde, mentre cade e si rialza, vittima, più che di se stessa, del mondo dentro cui ha scelto di inseguire l’amore per l’infinito.