Pistol, miniserie di 6 episodi prodotta per FX, diretta da Danny Boyle e disponibile da domani (sul canale Star di) Disney+, è la cronaca della fulminea e deflagrante ascesa, e dell’ancor più rapida dissoluizione, di una band composta da giovani che non sapevano cantare e suonare. Un solo LP prodotto e, se escludiamo i tour reunion a partire da metà anni Duemila, solo tre anni di attività. Tanto è bastato però ai Sex Pistols, a questi teppisti poveri della periferia di Londra, per cambiare la storia della musica, sulle prime senza neanche rendersene conto.
Pistol, ad essere più precisi, non racconta la storia dei Sex Pistols. Racconta la storia dei Sex Pistols secondo uno dei suoi fondatori, il chitarrista Steve Jones, visto che la miniserie è tratta dalla sua autobiografia, Lonely Boy – La storia di un Sex Pistol (da noi il libro è edito da Salani). Jones racconta che ne aveva le tasche piene di come John Lydon, alias Johnny Rotten, aveva narrato i fatti per anni. E in omaggio a questo rapporto di amicizia/odio che li lega da oltre quarant’anni, Jones ha pensato di spiegare come sono andate le cose dal suo punto di vista. Lydon non ha gradito, e tanto meno voleva che il tutto diventasse una serie TV con i pezzi dei Sex Pistols. La faccenda è finita tribunale, e Lydon ha perso. Insomma, mai vi capitasse nella vita di imbattervi nel vecchio Johnny Rotten, non chiedetegli cosa ne pensi di Pistol…
Steve Jones, dunque. Nell’immaginario collettivo, i Sex Pistols sono Rotten e il suo gemello ancora più distorto, Sid Vicious, soprattutto per la tragica fine fatta da quest’ultimo e dalla sua ragazza (avete visto Sid e Nancy di Alex Cox, immagino). Eppure né Rotten né Vicious sono stati tra i fondatori della band, nata con un altro nome attorno al carismatico Steve Jones, dapprima cantante e poi chitarrista del gruppo. Senza all’inizio saper né cantare né suonare, ovviamente. La serie di Boyle ripropone quanto Jones scrive di sé nel suo libro, e pur se il tutto viene riassunto e raccontato in fretta, non sono cose piacevoli. Vittima di abusi in famiglia e cresciuto in stato di semi-abbandono, tra riformatori e carcere, Jones era un guardone dipendente dal sesso e poi dalle sostanze, un ladro passato dai trenini alle auto vere, e per sua ammissione una personalità tossica, che danneggiava chi gli stava attorno.
Raccontare la storia dei Sex Pistols attraverso i ricordi, sufficientemente lucidi e mai troppo autoindulgenti, di Jones, aiuta a capire perché questa band sia nata e perché abbia avuto tanta importanza, nonostante le doti musicali pressoché inesistenti dei suoi componenti (Jones, per capirsi, ha imparato a suonare la chitarra in cinque giorni, imbottito di antetamine). Questi ragazzi hanno infatti incanalato la rabbia e la voglia di cambiamento di un’intera generazione, in un periodo molto buio per il Regno Unito. La nascita del punk britannico ha dato a tanti una valvola di sfogo, e i Sex Pistols (che si permettevano di imprecare in diretta TV) ne erano diventati alfieri e bandiera.
Pistol racconta ovviamente il ruolo fondamentale rivestito in tutto questo da Malcolm McLaren (e Vivienne Westwood), in quella che lo stesso McLaren, con il suo film del 1980, chiamerà “La grande truffa del rock’n’roll”. Una riuscita operazione di marketing, un fenomeno di pura rottura imbrigliato ad arte da chi aveva portato le provocazioni già nel mondo della moda, attorno al quale orbitavano però figure in seguito importantissime: i Clash, Siouxsie and the banshees, Chrissie Hynde e i Pretenders… Della non-musica da cui, passata l’ondata di risse nei pub, sputi e gomitate, sui cocci delle bottiglie rotte sarebbe nata della signora musica.
E tutto questo, Pistol, lo racconta bene? Più o meno.
La storia è quella raccontata nella prima parte dell’autobiografia di Jones, dai primi passi insieme al fraterno amico Paul Cook (il batterista dei Sex Pistols) e ad altri coetanei poi allontanati dal progetto per far spazio a Rotten e Vicious, fino alla morte di quest’ultimo. Non tutto corrisponde a quanto effettivamente successo, ma con i biopic è sempre così. Le performance di molti degli interpreti sono ottime, da Toby Wallace nei panni del protagonista a Sydney Chandle e Talulah Riley in quelli, rispettivamente, di Chrissie Hynde e Vivienne Westwood. E se Rotten sembra un po’ una macchietta è perché – l’avrete capito – è così che lo descrive Jones, e questa è la sua storia. Per rendere il tutto più credibile: sono stati scelti per i membri della band attori che non sapevano in gran parte cantare e suonare, e si è insegnato loro in modo spiccio quello che si poteva.
Boyle si sforza di rendere palpabile la miseria e la disperazione che si respiravano nei posti sbagliati di Londra a quel tempo. Lo fa ad esempio mescolando alle riprese tante immagini di repertorio e riempiendo i set di degrado. Eppure tutta quella spazzatura ammucchiata non basta. Il bagliore che ammanta personaggi e ambientazioni sortisce l’effetto opposto: toglie crudezza e rende tutto più morbido. Alcune soluzioni adottate sono piacevoli, e portano chiaramente la firma del regista inglese, ma alla fine il punk di cui tanto si parla, e che pur viene mostrato nei suoi aspetti più disgustosi, non colpisce. In Pistol non c’è un’oncia della disperazione e del freddo esistenziale di Trainspotting, per restare al curriculum di Boyle. E quella è una (meravigliosa) black comedy.
Questo tono non so quanto volutamente patinato, a tratti fiabesco, che copre vicende umane terribili, persone profondamente malate che ruotano attorno al negozio di Westwood e McLaren, priva di mordente una delle storie più spaventosamente feroci della storia della musica. Porta inevitabilmente lo spettatore a simpatizzare per Jones (che di autodefinisce, comprensibilmente, una canaglia) e dà al tutto i contorni della solita, raccontata e riraccontata e ririraccontata, parabola di una band che nasce, cambia, sfonda e poi si scioglie. Il che va bene per un po’ tutti i gruppi, ma non per questo.
Detto ciò, se è una storia che non conoscete, e vi interessa l’evoluzione musicale, volete sapere con quale azzardo situazionista è nato il punk inglese, che fine ha fatto un microfono di David Bowie o com’è andato uno dei momenti più famigerati e imbarazzanti della TV di sua maestà (protagonisti: i Sex Pistols, i loro fan e un presentatore ubriaco), un giro Pistol se lo merita, pure se la sua Anarchy in the UK l’ha lasciata a casa.