I fan di Paul Schrader non potranno sicuramente lamentarsi di Master Gardener, il nuovo film di uno dei cineasti più di culto dei tempi moderni, capace di affascinare, dividere e condizionare un’intera generazione con il suo cinema fatto di personaggi atipici e drammi diversi dalla norma. Presentato Fuori Concorso alla Biennale, Master Gardener è un tipico film di Schrader, nel bene per i suoi fan, nel male per i suoi detrattori, perché qui c’è tutto quello che lui ci ha sempre dato, c’è il suo cinema fatto di mistero e significati, di vite spezzate, di un’autorialità pura e coerente. Certo, forse manca il guizzo visto in First Reformed e in quel The Card Counter che tanti applausi aveva strappato l’anno scorso al Lido. Però rimane un’opera con ben più di un mero esercizio di stile da offrire al pubblico.
Per Narvel Roth (Joel Edgerton) l’arte del giardinaggio non ha segreti di alcun tipo. Da anni è il Mastro Giardiniere di fiducia della ricca e sovente dispotica Mrs. Norma Haverhill (Sigourney Weaver), per la quale cura il mastodontico terreno più simile a un Eden che a un giardino privato. Ligio al suo dovere, preciso fino al fanatismo, ammantato di una professionalità fredda e misurata, Narvel in realtà nasconde un terribile segreto: è un ex membro della fratellanza ariana. Dopo aver commesso diversi omicidi, ha deciso di collaborare con l’FBI e di iniziare sotto falso nome una nuova vita abbandonando quella di prima. Il suo corpo mostra i segni del suo passato, che però tiene per sé, oltre che per il suo agente di custodia (Esai Morales). Tuttavia un bel giorno riceva la notizia da parte di Mrs. Haverhill che la di lei nipote Maya (Quintessa Swindell) sta per arrivare nella tenuta. La ragazza ha un passato fatto di dolore e lutti, ha perso madre e nonna e ha una vita oppressa da droga e cattive compagnie. Toccherà a Narvel prendersene cura e fare in modo che non segua il suo esempio, prendendosi cura del giardino e imparando un nuovo mestiere, ma naturalmente la teoria è una cosa, la vita reale è un’altra.
Comincia così Master Gardener, con cui Schrader ritorna a parlarci di uomini perduti e spezzati, di un passato fatto di colpe e misfatti, della volontà di ricominciare, accarezzando le venature pallide di un western urbano oggi morto e sepolto, ma di cui lui sa preservare energia e vitalità in modo unico e non fraintendibile. Di certo un film alla Schrader e di Schrader, ma che forse non riesce a compensare una dimensione diegetica non perfettamente bilanciata con metafore talvolta fin troppo semplici.
Joel Edgerton è attore di mestiere e applicazione, ha una sensibilità particolare per gli uomini spezzati e contraddittori, e di certo Narvel è il più estremo di tutti, quello che gli permette di mettere in mostra il proprio talento in sottrazione con maggior incisività.
Master Gardener non è però solamente su di lui, ex ariano assassino diventato samurai del pollice verde, ma su un mondo fatto di tabù e regole stringenti, sull’oppressione della società verso un individuo diverso dalla norma o forse semplicemente senza una chiara impronta. Il tema della maschera ritorna, visto che Narvel ne indossa una da anni, fa finta di essere quello che non era, ma in fondo anche i tatuaggi che indossa sono una maschera, il suo vero io rimane nascosto, la sua vera natura sopita ed incerta. Il suo percorso è a metà tra violenza e negazione, tra accoglienza e rifiuto, e in questo Scharder sa connettersi con la sua scrittura ai personaggi immaginati da Ellroy e Steinbeck, almeno qui dove ci parla di un universo classista e spietato, quasi più europeo che americano.
Pure Maya lotta contro se stessa e una dimensione familiare in realtà assente o perlomeno ostile, contro la droga, contro un passato che non le ha dato un futuro e anche contro quell’uomo che pretende di dirle cosa fare e come comportarsi. L’America autunnale e umidiccia fa da contorno a Narvel e al fantasma della sua vita passata, a una storia in realtà semplice, su un uomo e una donna che si incontrano, che sono uguali perché reietti e pieni di dolore, che imparano ad andare oltre le reciproche differenze e a guarirsi a vicenda. Eppure, in tutto questo, manca la nemesi, o meglio ancora manca il vero ostacolo che vada oltre qualcosa di pretestuoso per far proseguire l’insieme in modo appassionante e non prevedibile, per fare in modo che il rapporto tra i due protagonisti vada oltre l’ovvio e il prevedibile. E quando Schrader diventa prevedibile di solito sono dolori.
Master Gardener vive di momenti, di piccoli istanti e scene, ma anche di personaggi come la Haverhill di una imprevedibile Weaver, che dipinge una specie di dispotica Regina della Foresta che pare sbucata dai tempi del Sud schiavista e arrogante.
Morales è il mero esecutore della legge che non prova empatia e segue la regola del distacco, evita le scorciatoie dell’empatia che Narvel gli offre per mantenere un rapporto che prova dell’immaturità del protagonista, che impara la caducità del vivere sociale.
Schrader ci continua a parlare di solitudine come ha sempre fatto, fin dai tempi in cui, con la Nuova Hollywood di cui fa parte, ridava linfa ad una cinematografia priva di rispetto per i personaggi, la loro storia, il loro iter evolutivo. La colpa, la redenzione tornano con orgoglio ma senza la necessaria creatività, senza anche quella cattiveria a cui ci aveva abituato, trovata anche in Cane Mangia Cane e Il Nemico Invisibile, ma è difficile vederci un peccato di eccesso di umiltà in questo esito.
Master Gardener ha il fastidioso profumo di un autocompiacimento fin troppo evidente, di una semantica che si accontenta del talento dei suoi interpreti, dell’identità di un autore di grande audacia ma che forse qui non ha capito bene come sviluppare ciò che voleva nel modo in cui voleva. Tuttavia l’insieme rimane sicuramente meritevole di una visione, perché in fondo Schrader ha sempre qualcosa da dire sull’uomo e i suoi percorsi tortuosi, sulla dannazione che ci assedia e su come possiamo sconfiggerla aprendoci verso il prossimo. Un film che chiude una trilogia comunque coerente e preziosa, di un cineasta che sa sempre come distinguersi dalla massa, da questo assedio indie e alternativo per pura maniera, ricordandoci come in fin dei conti contino sempre i personaggi e la loro evoluzione più che l’iter narrativo in sé.