Il signore delle formiche, la recensione del film di Gianni Amelio da Venezia 79

Il signore delle formiche, la recensione del film di Gianni Amelio da Venezia 79

Di Lorenzo Pedrazzi

Il reato di plagio fu introdotto nel 1930, durante il regime fascista, e prevedeva una condanna da 5 a 15 anni di reclusione per chiunque sottoponesse “una persona al proprio potere in modo da ridurla in totale stato di soggezione”. Da allora, l’unico condannato per questo reato (nonché uno dei pochissimi a subire un processo del genere) è stato l’intellettuale Aldo Braibanti, poeta, mirmecologo e partigiano antifascista originario di Fiorenzuola D’Arda. Nel 1964 venne denunciato dal padre di Giovanni Sanfratello, ventitreenne con cui Braibanti aveva una relazione, e che lavorava con lui nel laboratorio artistico del torrione Farnese di Castell’Arquato: i Sanfratello erano una famiglia ultraconservatrice, profondamente cattolica e nostalgica del fascismo, quindi è chiaro che i genitori di Giovanni volevano allontanarlo da Braibanti, sostenendo assurdamente che quest’ultimo lo avesse corrotto con la propria ideologia.

È questa la vicenda che Gianni Amelio sceglie di rielaborare ne Il signore delle formiche, pur cambiando i nomi di vari personaggi – Giovanni diventa Ettore – e romanzando alcuni snodi della trama. Luigi Lo Cascio interpreta Braibanti, mentre Elio Germano è Ennio Scribani, giornalista de L’Unità che si interessa al caso dell’intellettuale piacentino, e si scontra con la reticenza del suo direttore per difenderlo sulle pagine del quotidiano.

Amelio sceglie di valorizzare la storia d’amore tragica fra Aldo ed Ettore, e racchiude il film in una cornice romantica che si allontana dalla realtà. Detto questo, ha la lucidità di inquadrare un periodo storico molto contraddittorio: quello di Braibanti è infatti un caso scomodo anche per lo stesso Partito Comunista, nonostante il poeta – marxista dichiarato – abbia partecipato ai lavori del congresso nazionale nel 1956. Ma su alcune questioni, il PCI dell’epoca era tanto omofobo e conservatore quanto gli schieramenti opposti, e rifiutava di organizzare manifestazioni ufficiali per difendere un “invertito” (come lo definivano i detrattori). Il mondo dell’arte e della cultura, all’opposto, si schierò con Braibanti, insieme ad alcuni attivisti delle nuovissime generazioni. Nulla di nuovo: i militanti sono spesso più evoluti delle istituzioni che dovrebbero rappresentarli.

Questo conflitto è forse l’aspetto più interessante del film, che nel complesso rilegge la storia senza guizzi memorabili, e anzi talvolta si appiattisce sul linguaggio delle fiction televisive. Le intuizioni migliori sono nei lunghi primi piani che Amelio dedica ai personaggi nelle deposizioni processuali (o nell’inquadratura finale), talvolta usando la profondità di campo per lasciar trasparire un dettaglio fondamentale. Purtroppo, le interpretazioni del cast di contorno suonano forzate, e solo l’esperienza di Germano e Lo Cascio non suscita reazioni stranianti.

Da Il signore delle formiche emerge comunque tutta l’umanità di un uomo profondo e mite, disilluso ma non domo, vittima di un’Italia che ancora lottava contro i rigurgiti del fascismo. Una lotta che pare tristemente infinita.

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