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Oltre la televisione – La recensione de Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere

Pubblicato il 02 settembre 2022 di Marco Triolo

Sembra incredibile che siano passati vent’anni dall’uscita della trilogia de Il Signore degli Anelli, ma la sua memoria è ancora ben viva negli spettatori, anche grazie alla (sicuramente meno riuscita) trilogia de Lo Hobbit che, però, ha mantenuto in vita quell’estetica e quell’immaginario nelle menti degli spettatori. Nel frattempo, il panorama del cinema spettacolare è cambiato molto, anche proprio grazie all’immane sforzo di Peter Jackson, che, tra sperimentazioni tecnologiche (il performance capture con cui fu realizzato il pionieristico Gollum) e produttive (l’idea di girare un’intera trilogia in un colpo solo), ha lasciato un solco indelebile tra i blockbuster del nuovo millennio.

Da allora, dicevamo, molto è cambiato, non ultimo il fatto che le serie ad alto budget, specialmente quelle destinate alle piattaforme streaming, hanno preso il sopravvento e stanno modificando la serialità. È sempre più evidente come sia proprio quest’ultima la destinazione migliore per gli adattamenti letterari, che al cinema finiscono inevitabilmente schiacciati, ridimensionati e sintetizzati, mentre nel corso di più stagioni possono essere sviscerati in maniera approfondita. Detto in parole povere, se vent’anni fa fossero esistiti Netflix (esisteva, ma non come lo conosciamo oggi) e Prime Video, è probabile che Peter Jackson non avrebbe dovuto faticare tanto per condensare l’epopea di J.R.R. Tolkien in tre film, ma avrebbe optato per una serie come quella che, oggi, ha finalmente debuttato su Prime Video, appunto.

Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere ha fatto il suo esordio con i primi due episodi, ma bastano per metterci di fronte a un dato incontestabile: questa non è una “serie TV”. Non nel senso in cui le abbiamo intese finora, per lo meno. È qualcosa di nuovo, da un lato un ritorno all’idea dei vecchi serial cinematografici, che esistevano prima della nascita della televisione, dall’altro l’attraversamento di una soglia verso qualcosa di mai tentato prima. Certo, Game of Thrones ha ampiamente ridefinito il limite di ciò che è mostrabile in TV e realizzabile con un budget televisivo, ma, come ha scritto qualcuno, se mettiamo di fronte Gli Anelli del Potere a House of the Dragon, non c’è davvero paragone. House of the Dragon è una serie ambiziosa e costosa con dei bei draghi e degli ottimi fondali. Gli Anelli del Potere è cinema seriale: ogni scena è una cornucopia di dettagli clamorosi e meriterebbe di essere vista su uno schermo più grande del più grande schermo casalingo. Esteticamente, il lavoro fatto da J.A. Bayona, regista dei primi due episodi, e la sua crew paga pegno senza vergogna a Peter Jackson (d’altro canto dietro c’è sempre la Weta), al punto che Gli Anelli del Potere potrebbe tranquillamente essere considerato un prequel canonico di quei film, cercando allo stesso tempo di scavarsi un solco nella memoria collettiva puntando sulla varietà e la spettacolarità degli ambienti, e sul fatto che questo livello di dettaglio non l’avevamo mai visto prima sul piccolo schermo.

Da un punto di vista puramente narrativo, la serie non è altrettanto rivoluzionaria, e anche qui prosegue per la strada tracciata da Jackson, Fran Walsh e Philppa Boyens. Eppure l’incedere è quello giusto: non siamo di fronte a una serie che tenta di aggiornare il linguaggio di Tolkien al nuovo millennio in maniera maldestra, o che cerca di infondere chissà quale ritmo forsennato alle vicende per venire incontro ai gusti del pubblico televisivo di oggi. No, Gli Anelli del Potere avanza solenne e sicura di sé, epica quando deve, tesa quando serve e più leggera nelle scene incentrate sui Pelopiedi, gli antenati degli Hobbit, o sugli irresistibili e scozzesissimi Nani, perché non si può sempre tenere il broncio o guardare persi verso l’infinito, e gli showrunner J.D. Payne e Patrick McKay lo sanno, per fortuna. La sensazione è di trovarsi di fronte a un mondo complesso e ricco di sfumature, in cui la vita abbonda anche negli angoli della Terra di Mezzo che non ci vengono necessariamente mostrati. L’assist di Tolkien (e Jackson) ovviamente aiuta, ma la texture profonda e dettagliata della serie fa il resto.

Ci sono forti e chiari segnali sulla direzione che questa stagione, e la serie in generale, potrebbe prendere. Considerando che le appendici de Il Signore degli Anelli, a cui la serie si ispira, non hanno una struttura narrativa vera e propria, Payne e McKay sono abbastanza liberi di portare la storia un po’ dove pare loro, a patto di raggiungere, in un futuro non meglio precisato, lo scontro con Sauron raccontato nel prologo de La compagnia dell’anello. Da come si stanno muovendo le cose appare evidente che l’idea sia quella di replicare in qualche modo, e di certo non in maniera pedissequa, la struttura de Il Signore degli Anelli – quello vero e proprio – con una serie di personaggi, appartenenti a razze e provenienti da retroterra diversi, costretti ad allearsi per una missione. Altrimenti non si spiegherebbe la scelta di raccontare in parallelo le vicende di personaggi diversi, dagli elfi di Lindon (Elrond in primis) agli umani di Númenor (assenti nei primi due episodi) e delle terre del sud, dai nani di Khazad-dûm (dimenticate Moria!) ai Pelopiedi, nomadi antenati degli Hobbit. Tra questi ultimi abbiamo già un novello Frodo/Bilbo in Nori (Markella Kavenagh), curiosa e astuta, coraggiosa e un po’ incosciente, che sogna il mondo al di là delle solite rotte migratorie. Anche in questo caso sarà il mondo ad arrivare da lei, costringendola, molto probabilmente, a uscire dalla sua comfort zone. E poi ci sono Galadriel (Morfydd Clark), non ancora rassegnata alla scomparsa di Sauron e intenta a trovarlo prima che recuperi il suo potere; Elrond (Robert Aramayo), politico astuto e forse l’unico a credere a Galadriel; Arondir (Ismael Cruz Cordova), soldato elfico innamorato di un’umana, Bronwyn (Nazanin Boniadi); e infine Durin (Owain Arthur), principe dei Nani. Altri personaggi, come Isildur (Maxim Baldry), l’uomo destinato a ereditare l’Unico Anello di Sauron, arriveranno nei prossimi episodi e completeranno la schiera degli avversari del Signore Oscuro.

Cambiare tutto per non cambiare nulla, insomma. D’altro canto, la struttura de Il Signore degli Anelli è materia accademica, è la più classica impalcatura a tre atti del viaggio dell’eroe. Non ci si scappa e forse Payne e McKay non ne hanno nemmeno l’interesse. L’importante è che sappiano variare quanto basta per rendere il tutto accattivante e, se riusciranno a mantenere il passo maestoso di questi primi due episodi, c’è una buona probabilità che ci riescano.

Ah, un’ultima nota a proposito del casting “politicamente corretto” e di tutte le sterili polemiche che sono state fatte in questi mesi: bisogna ricordare che questa è una serie ambientata in un mondo fantastico che non ha attinenza con la realtà. Davvero ci scandalizziamo se un elfo, un essere con le orecchie a punta che abita un luogo mitologico, ha la pelle scura? Davvero vogliamo ancora crogiolarci nella nozione che Tolkien abbia creato la sua opera per dare alla Gran Bretagna una sua mitologia? Sarà anche stato così, ma, una volta che un’opera monumentale come Il Signore degli Anelli si sparge per il mondo e viene letta da milioni di persone di etnia, cultura ed estrazione sociale diversa, e le conquista con la pura forza dei miti ancestrali (che appartengono a tutti gli esseri umani), sfugge almeno un po’ dal controllo del suo creatore e diventa di tutti. È successo con Star Wars: a nessuno verrebbe in mente di prendersela con chi invoca la distribuzione delle versioni originali della trilogia classica, contro la volontà esplicita di George Lucas! Perché mai non riusciamo ad accettare che, in un mondo così cambiato rispetto ad appena un secolo fa, quando il concetto di villaggio globale era ancora ben al di là da venire, Il Signore degli Anelli non possa diventare patrimonio dell’umanità? Un paio di attori con carnagioni più scure della media non andranno certo a disfare i valori fondanti di un’opera che, per il resto, Payne e McKay tentano di restituire intatti, con una passione e un amore che trasuda da ogni fotogramma e dialogo. Con la stessa profondità? Chissà, è difficile, anche Peter Jackson ha faticato. Ma, se la serie avrà successo, loro avranno il vantaggio del lungo termine. Tutto è possibile.