Don’t Worry Darling, la recensione da Venezia 79

Don’t Worry Darling, la recensione da Venezia 79

Di Giulio Zoppello

Don’t Worry Darling di Olivia Wilde sbarca a Lido dopo un’infinità di polemiche circa l’allontanamento di Shia LaBeouf, che ha fatto il giro del mondo e riattizzato le voci su una produzione difficoltosa e un clima poco sereno sul set. Florence Pugh, che non si è vista a Venezia, di certo non ha aiutato a rasserenare gli animi, aumentando però anche l’attesa per questo film distopico, marcatamente incentrato sull’oppressione di genere e sul dramma della manipolazione e dell’egoismo nella società moderna.

Un film con molti difetti ma anche elementi di pregio, che forse con un po’ più di tempo a disposizione e una scrittura più sapiente avrebbe potuto diventare qualcosa di più incisivo.

Un incubo nascosto dentro ad un sogno

Per la giovane coppia formata da Alice (Florence Pugh) e Jack (Harry Stiles) la vita pare un sogno hollywoodiano. I due risiedono a Victory, una piccola città aziendale in cui ogni cosa pare sbucata da una pubblicità degli anni ’50, e con un’idea di famiglia parimenti cartonata e antiquata.

Tuttavia tra lusso, feste, aperitivi e sesso, i due paiono aver trovato un equilibrio perfetto, soprattutto perché Jack, che lavora come ingegnere alla Victory, è sempre più nelle grazie del carismatico guru della Victory, il misterioso Jack (Chris Pine), che guida una sorta di sentimento collettivo fatto di arrivismo, machismo, consumismo e omologazione.

Alice, ridotta ad essere una casalinga avvolta da abiti sfarzosi e una compagnia civettuola tra cui brilla l’affascinante Mary (Olivia Wilde), lentamente però rimane vittima di inquietanti allucinazioni e dell’opprimente sensazione che nella perfetta Victory ci sia qualcosa che non va.

Sarà solo l’inizio di una lotta senza quartiere contro un’intera società, contro un’idea di vita ed esistenza, una prigione fatta di eleganti appartamenti, abiti da sogno, sorrisi e piscine, tra quelle ville a schiera dentro un deserto che si fa sempre più misterioso e inquietante.

Don’t Worry Darling fin dall’inizio sposa un’atmosfera palesemente inquietante e disturbante, si affida completamente alla chimica tra una Pugh piena di energia e particolarmente espressiva, e un Harry Stiles che conferma di essere un talento dalle grandi potenzialità. 
Attorno a questa coppia la Wilde cuce una metafora della storia del costume e della società americane, della famiglia, ma soprattutto della posizione subalterna della donna nel fu sogno americano, peccato però che tutto questo arrivi all’interno di un iter diegetico prevedibile e che sa di già visto.

Don’t Worry Darling ha una fotografia eccellente di Matthew Libatique, che si adatta perfettamente ai bellissimi costumi di Arianne Phillips e alle scenografie di Katie Byron nel creare un viaggio dentro una sorta di incrocio tra una sit-com anni ’50 e un trattato di stile.

Fin dall’inizio si è avvolti da una sorta di danza macabra, in cui i due protagonisti appaiono gioiosamente invischiati tra sesso, pietanze al forno, musica, balletti e abiti di gala, in un clima tossico e superficiale da perfetta famiglia americana.

Lo spettro del totalitarismo però si palesa immediatamente grazie a un Chris Pine seducente, manipolatore e gelidamente sadico, forse però fin troppo scontato nella sua applicazione, nelle movenze rettili, e che talvolta tocca le corde della prevedibile banalità.

A mano a mano che si va avanti, Don’t Worry Darling passa da essere un interessante viaggio distopico, che si connette al classico tema della società perfetta visto in La Donna Perfetta, The Truman Show e soci, a una semplice operazione di mixer tra titoli d’annata.

Matrix, l’universo cyberpunk e anime più noto e stracitato abbondano, la psichedelia si riversa su di noi ma senza eleganza, senza una vero senso narrativo, andando a cozzare con la supposta linearità della diegesi di uno sci-fi che ambisce a nascondere le carte ma lo fa molto male.

Il più grosso problema è quindi non nel cast, dove anche la Wilde il suo lo fa e bene, ma nella sceneggiatura di Katie Silberman, tratta da un racconto della stessa Silberman con Carey e Shane Van Dyke, che non riesce a tenere il ritmo, a mantenere la promessa di un viaggio verso la libertà personale diverso dalla norma.

Peccato anche per la regia della Wilde, che ci prova ma non riesce sempre ad essere qualcosa di più di geometrie e movimenti mainstream, ad elevarsi oltre lo scolastico che sa di mestiere di altri.

Un buon cast per un racconto monco

Detto questo, Don’t Worry Darling ha però due protagonisti non privi di fascino, in particolare la Pugh ci dona un personaggio femminile molto meno perfetto e vincente rispetto ai tanti che ammorbano il nostro cinema in questi ultimi anni. 
La sua Alice, da superficiale e passiva, diventa curiosa e ribelle, una variabile impazzita che ben si adatta a rappresentare il dissenso alla norma che costò e costa ancora oggi caro a tante donne nella società moderna, quando si rifiutano le convenzioni.

Harry Styles stupisce per espressività, per come da passivo, insicuro e ingenuo ragazzo pieno di egoismi e sogni mal riposti si rivela a poco a poco il perfetto esempio di maschio prevaricatore, codardo, tossico e manipolatore. L’insieme ci parla dell’emancipazione in quanto fatto culturale più che materiale, di un percorso che poi il film cerca di connettere al mito della Caverna di Platone, al concetto di un presente opprimente, iper tecnologizzato ma disumanizzato.

Ma le scene d’azione insensate, il finale frettoloso e retorico, dimostrano una scrittura e una produzione frettolose, e non c’è cast, costume o colonna sonora (bella quella di John Powell) che tenga in questi casi.

Senza ombra di dubbio il problema non sarebbe stato neppure Shia sul set, perché il problema era altrove, era in idee poco chiare, in uno script non abbastanza sviluppato, in un’intenzione troppo ridotta alla base.

Rimane un film godibile, ma senza acuti o sapori particolari, senza che vi sia un lascito più significativo dell’ennesimo racconto femminista dallo scarso respiro come purtroppo oggi ve ne sono tanti, senza poter rivendicare una grande originalità.

La speranza è che la prossima volta la Wilde faccia tesoro degli errori qui commessi, perché si vede talento e determinazione, ma forse il passo è stato troppo lungo, forse pensare che bastasse Booksmart è stato un po’ ingenuo.

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