Problematizzare la fede è chiedere troppo al cinema italiano contemporaneo, e Chiara di Susanna Nicchiarelli lo dimostra a pieno titolo. Reduce da altri due ritratti femminili (Nico e Miss Marx), la cineasta romana sposta l’attenzione su Chiara d’Assisi per evidenziarne gli aspetti “proto-femministi”, ma senza mai restituire la complessità storico-psicologica della vicenda che racconta.
Nicchiarelli sceglie una narrazione lineare, che comincia quando la diciottenne Chiara (Margherita Mazzucco) scappa da casa con un’amica per unirsi all’ordine di Francesco (Andrea Carpenzano), nel 1211. Altre donne la seguono, e ben presto Chiara si ritrova a guidare un ordine tutto suo, anche se preferirebbe far parte di quello francescano. In ogni caso, la giovane non si considera una badessa, e vuole restare fedele al voto di povertà. Quando i parenti cercano di portare via sua sorella minore Agnese, unitasi all’ordine, due eventi misteriosi impediscono il rapimento, e da quel momento l’esistenza di Chiara si popola di miracoli. Le madri cominciano a portarle i figli perché li guarisca, accrescendo così la sua fama. I divieti del Papa e le limitazioni imposte alle donne, però, la costringono a una difficile battaglia per la libertà del suo ordine.
Il conflitto non è solo con lo status quo ecclesiastico, ma anche con lo stesso Francesco, ritratto come una figura che scende a compromessi (è costretto a scrivere la regola dell’ordine) se paragonato al maggior spirito rivoluzionario di Chiara. Il problema è anche questo: la regista usa quasi esclusivamente i contrasti per caratterizzare la futura santa, invece di lasciare che la sua personalità emerga in autonomia. Così facendo, il film non va oltre l’idea dell’ordine femminile come sorellanza, contrapposto alla dichiarata misoginia della Chiesa che vede le donne solo come tentatrici.
La ricostruzione storica e culturale è piuttosto semplicistica, non dà mai l’impressione di immergersi a fondo nell’epoca di riferimento. Anzi, nella prima parte sembra di assistere a un’opera didattica infarcita di dialoghi espositivi, che servono solo a trasmettere informazioni. In effetti, il limite del film è anche tecnico, di confezione. L’estetica è da fiction televisiva, fotografia compresa. Nicchiarelli ci mette del suo con gli intermezzi musicali, quando sintetizza alcuni snodi della trama attraverso balli e canti religiosi, ma l’esito è stucchevole, e solo il bizzarro anacronismo del finale riesce a spiazzare un po’. Per il resto, Chiara si accontenta di mettere in scena la storia della protagonista con scarso spirito critico, anche nella rappresentazione dei miracoli. Il confine tra didattica e proselitismo, a volte, è molto sottile.