Esiste un modo corretto per raccontare le più grandi icone popolari del Novecento? La vita di Marilyn Monroe, sempre più lontana dalla realtà, si è ormai tradotta in un leviatano di gossip che riflette le aspettative del pubblico, l’idea che la gente (e la stampa) si è fatta di lei. È quindi impossibile realizzare un vero e proprio biopic dell’attrice, soprattutto con pretese di assoluta verosimiglianza. Blonde, il libro di Joyce Carol Oates da cui è tratto il film di Andrew Dominik, è molto chiaro in tal senso: non è una biografia ufficiale di Norma Jeane Mortenson Baker, bensì un romanzo che unisce storia e finzione per restituire una determinata immagine della diva, filtrata attraverso la fantasia dell’autrice e il mito stesso di Marilyn. A Dominik resta quindi l’arduo compito di plasmarlo in una forma cinematografica, dove il linguaggio delle immagini prevarica su quello verbale.
Pur essendo cronologicamente lineare, Blonde non lo è sul piano dell’esposizione narrativa: la sceneggiatura del regista si dipana infatti come un flusso di sogni e allucinazioni, macchie di racconto che formano un ritratto impressionista. Si nota fin dall’inizio, nella splendida sequenza con Marilyn bambina e la madre instabile, durante l’incendio di Griffith Park nel 1933. Un salto temporale ci porta avanti di circa dieci anni, quando Norma Jeane è già Marilyn, e ha debuttato nel cinema dopo molte esperienze come modella. Da qui in poi ritroviamo la diva che tutti conosciamo, passando dai suoi film più celebri ai matrimoni con Joe DiMaggio e Arthur Miller, la relazione clandestina con JFK, gli aborti, il sessismo degli studios, le pressioni della fama e la dipendenza da barbiturici.
Non è difficile individuare il nucleo tematico del film, che poi è anche uno dei suoi limiti: Dominik vuole raccontare il conflitto tra Norma Jeane e Marilyn, ovvero l’immagine privata e quella pubblica, la persona e la diva. Un approccio forse troppo schematico e prevedibile, anche perché tende a risolvere la complessità del personaggio in un unico ruolo, quello della vittima. Se si escludono le sfuriate sul set de Gli uomini preferiscono le bionde, questa Marilyn è sempre ritratta con lo sguardo da cerbiatto indifeso, una bambola nelle mani dei produttori e dei mariti. Senza dubbio Norma Jean è stata anche questo, ma la sua personalità non può essere interamente sintetizzata come tale, ci sono molte altre sfumature che meriterebbero di essere raccontate. Ad esempio, la sua cultura teatrale e letteraria viene solo accennata, così come la sua scrittura poetica. Ci sono giusto due scene – peraltro molto efficaci nel delineare la percezione comune della diva – in cui le sue conoscenze di Čechov e Dostoevskij vengono messe in dubbio dagli uomini. Ma, oltre a questo, la Marilyn del film resta sempre intrappolata nel ruolo di preda.
Anche l’interpretazione di Ana de Armas corrobora tale sensazione, forse troppo impegnata a cercare una mimesi piuttosto che la naturalezza del personaggio. Dominik lavora moltissimo sul suo volto e sul suo corpo, mentre tenta di replicare il “mito” nelle sue pose più iconiche. Il film che le costruisce attorno, però, è troppo discontinuo per convincere del tutto. Blonde alterna soluzioni visive intriganti (come il cambio di formato e il passaggio dal colore al bianco e nero, per quanto talvolta un po’ gratuiti) ad altre più stucchevoli, che scivolano persino nel didascalico. Certo, sfugge alla banalità dei soliti biopic e non cede a tentazioni agiografiche, ma si rivela prolisso nel suo gioco psicologico sulla ricerca del padre, che incornicia tutto il film.
Nel complesso, Blonde è una resa di fronte all’identità sfuggente di Marilyn, l’ammissione di non poter raccontare la sua vita se non attraverso l’immaginazione. Non la storia di Norma Jeane Mortenson Baker, ma quella di Marilyn Monroe: non la realtà, ma solo il mito.