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Bardo, la recensione del film di Iñárritu da Venezia 79

Pubblicato il 01 settembre 2022 di Lorenzo Pedrazzi

Nei suoi consigli per scrivere onestamente, Raymond Carver diceva che sarebbe meglio non raccontare una storia con protagonista uno scrittore (inevitabile specchio dell’autore stesso), ma piuttosto di trasformarlo in un artista diverso, magari un pittore. Alejandro G. Iñárritu, però, sceglie di non allontanarsi troppo dalla sua natura: il protagonista di Bardo, Falsa crónica de unas cuantas verdades è infatti un prestigioso giornalista e documentarista, quindi un cineasta in tutto e per tutto. Come altri suoi colleghi del passato, anche Iñárritu decide di mettersi in gioco dietro una maschera che nasconde a fatica il suo volto, eleggendo il Silverio di Daniel Giménez Cacho a proprio “doppio”.

Le similitudini non mancano, al di là del mestiere. Entrambi sono uomini maturi, entrambi sono messicani che lavorano (anche) negli Stati Uniti, ed entrambi hanno ricevuto riconoscimenti dal paese ospitante: gli Oscar per Iñárritu, un grande premio in ambito giornalistico per Silverio. Ma l’impegno civile di quest’ultimo stride con l’apprezzamento dei gringos, legati al Messico da un rapporto storicamente conflittuale, se non oppressivo. Tali contraddizioni etiche alimentano la crisi esistenziale di Silverio, che da anni vive a Los Angeles con moglie e figli: tornato nel paese natio, il giornalista vive quindi un’epopea onirica e mnemonica che assottiglia il confine tra realtà e finzione.

Può sembrare banale, ma Bardo è davvero l’8 1/2 di Iñárritu, nel senso che mette in scena l’inconscio e i sogni dell’autore attraverso un suo riflesso fittizio. Il film procede per associazioni insolite, con una narrazione spesso rarefatta, dove non esiste soluzione di continuità tra il sonno e la veglia. In tal senso, il regista messicano dà il meglio di sé quando lascia parlare le immagini: il continuo peregrinare di Silverio è un flusso di coscienza dove ogni scena ne partorisce un’altra, dando luogo a visioni spesso grottesche. Purtroppo, però, Iñárritu non sa dove fermarsi. Troppo ansioso di farsi capire, talvolta scivola nel didascalico, con modi che spaziano dall’ingenuità alla palese malizia. C’è un dialogo fra Silverio e un noto giornalista televisivo, suo ex collega, che potrebbe tranquillamente essere una discussione tra il regista e un suo detrattore: Bardo, insomma, cannibalizza sé stesso, mettendo in campo la furbizia egoriferita di chi vuole anticipare eventuali critiche.

Il sottotitolo, “falsa cronaca di alcune verità”, rivela già il fulcro del discorso. Per Silverio – e quindi per Iñárritu – si può raccontare la realtà solo attraverso il filtro della finzione, che permette di rielaborare sia gli eventi del mondo sia l’interiorità dell’autore: proprio quello che fa il protagonista nei suoi documentari, e Iñárritu stesso in Bardo. È come se il regista cercasse un’assoluzione per i suoi successi americani, mentre lancia strali contro la pochezza della cultura statunitense e le tendenze “sociali” della contemporaneità. Più interessante è la riflessione sulle origini meticce del Messico e sui rapporti con gli USA (anche per un accenno satirico che sfocia quasi nella fantapolitica), ma resta sempre l’impressione che non abbia poi molto da dire, e quello che vuole comunicare ci starebbe tranquillamente su una capocchia di spillo. Invece, a Iñárritu servono ben tre ore di virtuosismi per raccontarlo, perdendo ben presto il senso della misura.

Anche per questo, Bardo ha certamente qualcosa in comune con Birdman, ma sceglie di rendere più esplicita la meta del protagonista: il titolo, infatti, si riferisce a uno stato transitorio fra la morte e la rinascita secondo alcune scuole del buddismo. Silverio deve raggiungere il “bardo” per esorcizzare i conflitti della sua vita, e trovare una sintesi fra le molte persone che la animano. L’esito è strabiliante sul piano tecnico, anche grazie alla fotografia di Darius Khondji, ma troppo sfacciato ed elementare nei suoi risvolti filosofici.