Cinema Recensioni Festival

Non si sfugge al rumore bianco: la recensione di White Noise da Venezia 79

Pubblicato il 31 agosto 2022 di Lorenzo Pedrazzi

Noah Baumbach sfida il caos della letteratura post-moderna nella trasposizione di White Noise, sua prima sceneggiatura adattata da un romanzo. Non sceglie un compito facile: il capolavoro di Don DeLillo è un libro magmatico, introspettivo ed eterogeneo, la cui traduzione sullo schermo impone numerosi sacrifici.

Iniziamo però dal contesto. White Noise si svolge negli anni Ottanta, in una cittadina universitaria del Midwest, dove il professor Jack Gladney (Adam Driver) ha una cattedra di studi su Adolf Hitler. Vive con la moglie Babette (Greta Gerwig) e quattro figli, tre dei quali nati dai loro precedenti matrimoni. Quando un incidente automobilistico provoca la fuoriuscita di un gas molto pericoloso, il Nyodene D, tutta la città viene evacuata in gran fretta. Anche Jack si mette in macchina con la sua famiglia, ma una breve esposizione al gas sembra concretizzare all’improvviso tutte le sue più grandi paure sulla morte.

È proprio qui che si trova il fulcro tematico della storia: il romanzo è un’estesa riflessione sulla morte, sulla sua influenza nelle scelte individuali e nella visione del mondo. Eliminare la paura della morte equivale a svuotarla di senso? Il film non può eguagliare la ricchezza delle considerazioni di DeLillo, espresse attraverso i dialoghi e la voce narrante di Jack, ma Baumbach dimostra di saper usare bene il linguaggio che ha a disposizione: il suo White Noise è pieno di dialoghi serrati e grotteschi, certo, ma è soprattutto con i suoni e le immagini che tenta di riprodurre la voce caotica del mondo. Schermi accesi ovunque, annunci surreali in stile M.A.S.H., prodotti dai colori squillanti al supermercato, brusii di discorsi che si sovrappongono alle pubblicità, alle radio, alle televisioni… insomma, un rumore bianco di cui ormai non ci rendiamo nemmeno più conto, tanto ne siamo abituati. È la colonna sonora delle nostre vite globalizzate e interconnesse, in una società che venera i media e i prodotti di consumo come faceva un tempo con i leader carismatici. Era vero già nel 1985, ma lo è ancora di più ai giorni nostri.

In effetti, quella che a prima vista sembra una trasposizione fuori tempo massimo, in realtà si rivela molto puntuale – e non solo per gli ovvi parallelismi con l’era Covid, dalla quarantena all’assuefazione alle tragedie. La spettacolarizzazione generalizzata (del dolore, della politica…) è un fenomeno degli anni Ottanta che prosegue tuttora, a risoluzione più alta e con maggior velocità di diffusione: il rumore bianco è ovunque, impossibile sfuggirgli. A risultare datata è forse la satira del supermarket come rassicurante cattedrale del consumo, ma lo sguardo sarcastico sugli accademici è sempre valido, come il ritratto ironico di una famiglia disperatamente cerebrale. Anche a questo serve l’accumulazione di dialoghi strampalati, la cui freddezza ci strania e talvolta infastidisce. Al contempo, la natura composita del romanzo permane nel film di Baumbach, che però ne compatta l’intreccio ricombinando le scene, e impiegando il montaggio – sia alternato sia parallelo – con notevole arguzia. Se non può usare l’io narrante di Jack (che qui suonerebbe troppo invadente), allora può sfruttare il linguaggio stesso del cinema per mettere in comunicazione idee, scene e concetti, guidando il pubblico nell’interpretazione dell’opera.

In tal senso, Baumbach non si tira indietro nemmeno di fronte ai risvolti più suggestivi della trama, aggiungendone di nuovi (la splendida scena dell’incubo) e dimostrando grandi capacità tecniche in registri che finora non aveva mai esplorato. Così, persino White Noise alimenta consapevolmente quel gusto infantile per la distruzione di cui parla il professor Murray Siskind (Don Cheadle) all’inizio del film: un piacere per lo spettacolo puro, per la meraviglia visiva che fa appello a reazioni basilari. Il post-moderno, insomma, non smette mai di fagocitare sé stesso.