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MEN – La recensione del film di Alex Garland

Pubblicato il 04 agosto 2022 di Lorenzo Pedrazzi

Quello di Alex Garland è un cinema fatto di ottime idee che non sempre trovano la loro espressione migliore, o quantomeno non riescono a mantenersi costanti. Riflettendo sui film che il cineasta inglese ha scritto e/o diretto (quindi a partire da 28 giorni dopo), si ravvisa spesso un limite intrinseco nello sviluppo della trama, soprattutto in coincidenza del terzo atto. L’impressione è che il suo approccio maturo all’orrore e alla fantascienza – per quanto lodevole – manchi talvolta di solidità concettuale, o non riesca a sintetizzare in modo compatto i numerosi impulsi filosofici che ne guidano la scrittura. Persino Ex Machina, forse il suo film più equilibrato, non riusciva a imboccare una strada che fosse davvero sorprendente.

Ebbene, MEN radicalizza i problemi ricorrenti del suo cinema in una storia più contenuta, come le dimensioni della produzione stessa. Dopo un prologo in medias res che verrà approfondito nel corso del film, vediamo la protagonista Harper Marlowe (Jessie Buckley) in viaggio per la campagna inglese dopo la morte di suo marito James (Paapa Essiedu), apparentemente suicida. Harper vuole prendersi due settimane di pausa da Londra, quindi ha affittato un cottage immerso nella natura. Il proprietario, Geoffrey (Rory Kinnear), è un uomo un po’ goffo ma cordiale, che le mostra la casa e le spiega tutto il necessario per la sua permanenza. Ben presto, però, la situazione si fa strana: un uomo nudo insegue Harper per i boschi circostanti, e anche gli altri individui del paese hanno un atteggiamento ambiguo. Il prete, quando la donna gli racconta il suo passato, insinua addirittura che la colpa della morte di James sia da attribuire a lei. Il clima tossico cresce di giorno in giorno, finché Harper non si sente assediata.

La particolarità di MEN è che tutti gli uomini incontrati da Harper in paese hanno il medesimo aspetto, quello di Rory Kinnear, con minime differenze anagrafiche, estetiche e sociali. Rievoca le soluzioni adottate da Charlie Kaufman e Duke Johnson in Anomalisa, anche se qui la somiglianza tra i personaggi maschili non ha nulla a che fare con la sindrome di Fregoli. Piuttosto, Garland dà corpo all’idea che ogni uomo, con diversi livelli di consapevolezza, contribuisca all’oppressione delle donne nella vita quotidiana: non a caso, gli uomini del film incarnano i più diversi aspetti della tossicità maschile, dalla manipolazione psicologica al gaslighting, dalla logica del branco alle molestie sessuali.

Garland dimostra ancora una volta di saper costruire la tensione come pochi altri registi contemporanei (i primi due incontri con il persecutore sono magistrali per inquadrature, montaggio e movimenti di macchina), ma il punto è proprio questo: il film funziona nei suoi aspetti più istintuali, quelli che generano suspense, e non in quelli di carattere intellettivo. MEN è un’opera molto cerebrale che fa appello a elementi irrazionali per giustificare il proprio caos interno, senza però saperli armonizzare nella trama. Da un lato ci sono i Döppelganger che rappresentano la nocività maschile, dall’altro il ricorso per lo più gratuito a entità folcloristiche come l’Uomo Verde e la Sheela na Gig, che si avvicinano al folk horror senza troppa convinzione. A questo pastiche di raccapriccio e tematiche sociali, Garland aggiunge persino una deriva nel body horror che sembra citare la cosiddetta “invidia dell’utero”, concetto introdotto da Karen Horney nella psicologia neo-freudiana per spiegare l’invidia degli uomini verso le capacità procreative della donna. L’accostamento tra l’Uomo Verde, simbolo di rinascita e ciclicità della natura, e l’eterno ritorno dell’oppressione maschile è piuttosto forzato, a dimostrazione di quanto MEN viva di giustapposizioni più casuali che ragionate.

Eppure, molte intuizioni sono condivisibili, e non c’è dubbio che Garland sia dotato di una certa sensibilità. Ha la lungimiranza per capire quanto sia dannosa l’ossessione degli uomini per l’intimità femminile, e anche la ricerca esasperata dell’amore, la brama di veder confermato il proprio desiderio sessuale nell’altra, di essere salvati da una donna: insomma, atteggiamenti persecutori che si esprimono in forme diverse, e con gradazioni di aggressività variabile. È un peccato che il film riesca solo a sistematizzarli in un racconto troppo cerebrale, persino meccanico nel suo gioco di rimandi interni tra il passato e il presente di Harper.