C’è stato un tempo in cui David Cronenberg avrebbe celebrato la “nuova carne” con un grido di trionfo, osannando la morte della “vecchia carne” e la transizione al post-umano. Ma in Crimes of the Future, 23 anni dopo la sua ultima sortita nella fantascienza e nel body horror, non c’è più spazio per l’entusiasmo: al massimo, il passaggio a uno stadio successivo dell’evoluzione umana viene accolto con pacata rassegnazione, nella piena coscienza della sua inevitabilità.
Rispetto a film come Videodrome o eXistenZ, peraltro, Cronenberg assegna il ruolo di protagonisti alla vera avanguardia del post-umano, gli artisti performativi, le cui sperimentazioni autolesioniste prevedono spesso la lacerazione del corpo e/o la contaminazione con materiali artificiali. In questo futuro imprecisato dove le biotecnologie permettono di controllare le funzioni fisiologiche tramite computer, Saul Tenser (Viggo Mortensen) e Caprice (Léa Seydoux) sono due artisti di fama mondiale. Le loro esibizioni consistono nel rimuovere dal corpo di Saul tutti quegli organi vestigiali che crescono naturalmente dentro di lui, a causa di una condizione nota come “sindrome di evoluzione accelerata”. Nel frattempo, un gruppo di evoluzionisti radicali è riuscito a modificare il proprio apparato digerente al fine di assimilare materiali sintetici, e Saul viene avvicinato da un detective per infiltrarsi nella setta.
Il passo meditativo e le atmosfere cupe spingono Crimes of the Future nei territori del noir, anche per la trama apparentemente contorta che lascia molto spazio alla ricostruzione del pubblico. Al contempo, però, c’è qualcos’altro: nell’andamento greve del film, nella difficoltà di Saul a parlare, mangiare e persino respirare, si nota un cambio di tono rispetto ai vecchi sci-fi del regista canadese. Questo è il Cronenberg che viene da otto anni di silenzio (Maps to the Stars è del 2014), sempre in difficoltà nel reperire fondi, e forse disilluso sia dal cinema sia dai tempi che corrono. Riprendendo in mano gli aspetti più caratterizzanti della sua poetica, il regista opta per un clima fosco e decadente, dove nemmeno la sparizione del dolore fisico – altra conseguenza delle biotecnologie – sembra una buona notizia. Piuttosto, è l’emblema di una desensibilizzazione che porta all’apatia, proprio l’opposto di ciò che intende fare l’arte performativa. Per questo motivo, Saul e Caprice mirano al gesto artistico sempre più estremo in una realtà dove “la chirurgia è il nuovo sesso”, come dice il personaggio di Kristen Stewart.
Quello di Crimes of the Future, insomma, è un futuro che ha ormai accolto l’eccezionalità del cinema cronenberghiano come la nuova norma: si aprono i corpi davanti a un pubblico pagante, li si esplora per metterli in mostra, e il vecchio shock è sostituito dall’abitudine. Se ne ricava così la sensazione di un mondo esausto, appesantito da tecnologie volutamente retrofuturistiche, con macchinari ingombranti e sistemi di ripresa che paiono usciti dall’immaginario dei primi anni Novanta (una pratica abbastanza comune tra i vecchi maestri della fantascienza: Terry Gilliam, per intenderci, ha fatto qualcosa del genere in The Zero Theorem). Non ci sono smartphone in questo futuro, né computer per come li intendiamo noi: più che il nostro mondo, è l’inconscio dell’autore a essere proiettato nell’avvenire. Si potrebbe dire che altri cineasti, come la brillante Julia Ducournau di Titane, vantino uno sguardo più contemporaneo sull’intersezione fra naturale e artificiale, ma l’inorganico in Cronenberg continua ad avere uno straordinario sex appeal, anche quando cita sé stesso. E lo fa di frequente: dall’enzima corrosivo del bimbo che mangia la plastica (debitore de La mosca) alla fessura orizzontale nell’addome del protagonista, come in Videodrome.
Il risultato è un’opera parzialmente irrisolta, misantropa, forse troppo frammentaria, eppure dotata di un fascino scomodo e tenebroso: come gli artisti a cui si riferisce in modo implicito (Gina Pane, Orlan, ma anche le orecchie trapiantate di Stelarc), Cronenberg è ancora capace di farci provare un disagio sottile e indefinibile, rendendoci ospiti di un mondo per il quale non siamo ancora pronti.