C’era una volta il 2006, epoca di tarantinate apocrife e ultimi rigurgiti neo-pulp. Film come Smokin’ Aces o Lucky Number Slevin giocavano a rielaborare il primo Tarantino in veste più grottesca, puntando sul parossismo delle caratterizzazioni, sui dialoghi veloci e sugli spargimenti di sangue inusitati. Talvolta dimostravano un solido mestiere (come nel caso di Joe Carnahan), ma spesso destavano una sensazione artificiosa: la stessa di ogni imitazione commerciale, per intenderci. Ecco, Bullet Train ci riporta indietro di una quindicina d’anni, ma eleva quella vecchia tendenza al rango di blockbuster, con uno star power e valori produttivi ancora più alti.
Lo si capisce fin dai soprannomi dei protagonisti che il film di David Leitch predilige toni scanzonati, quasi volesse mitigare la spiccata virilità del cast. Ladybug (Brad Pitt) è uno scalognato sicario che deve recuperare una valigetta dallo Shinkansen, il celebre “treno proiettile” della tratta Tokyo-Osaka. Sempre in contatto radio con il suo capo (Sandra Bullock), Ladybug sembra cavarsela facilmente, ma è solo un’impressione: sul convoglio ci sono infatti altri sei assassini, ognuno con i propri obiettivi, e scendere dal treno diventa impossibile.
L’incipit è tutto una sequela di dialoghi postmoderni che si fingono vivaci, ma non lasciano il segno né per le citazioni dall’immaginario collettivo – Lemon, il killer interpretato da Brian Tyree Henry, è fissato col Trenino Thomas – né per la rapidità degli scambi verbali. Si avverte sempre qualcosa di forzato, una ricerca della brillantezza a tutti i costi che finisce per sortire l’effetto opposto: invece di catturarci nella vicenda, innesca un senso di straniamento. Anche i numerosi flashback, montati al fulmicotone per raccontarci le premesse della storia e il passato dei personaggi, riciclano idee vetuste (come il conteggio dei cadaveri di Lemon e Tangerine) alla ricerca di una coolness ben poco spontanea.
Per fortuna, qualcosa cambia dopo il primo atto. David Leitch, ormai il principale esponente dell’action hollywoodiano con l’ex sodale Chad Stahelski, comincia a fare quello che gli riesce meglio, e imbastisce un film che corre alla stessa velocità dell’eponimo treno. I dialoghi pseudo-brillanti e le situazioni paradossali vengono diluiti nell’azione, mentre l’intreccio scioglie i suoi nodi: così, le interconnessioni tra i protagonisti compongono un quadro generale più chiaro, e anche la proverbiale sfortuna di Ladybug guadagna un significato che fa quasi tenerezza, in linea con la sua nuova filosofia zen. Se molti uomini farebbero di tutto pur di non andare in terapia – come recita un noto meme – lui invece ne parla con entusiasmo.
Comunque, a risollevare Bullet Train è soprattutto il terzo atto. Stralunato, inverosimile ed esagerato, l’epilogo riesce a intrattenere perché accelera senza ritegno, gestendo bene l’alternanza fra i personaggi. Certo, permane la sensazione che il cast si diverta più del pubblico, come dimostrano i camei repentini di alcune superstar nello spazio di pochissime inquadrature. Resta però un raro caso di produzione hollywoodiana che non cerca di lanciare un franchise: persino la scena durante i titoli di coda serve a dare una chiusura più esaustiva, senza aprire le porte a un secondo capitolo. In un certo senso, Bullet Train è démodé anche per questo.