Better Call Saul, il finale: “meglio non chiamarlo Saul” [SPOILER]

Better Call Saul, il finale: “meglio non chiamarlo Saul” [SPOILER]

Di DocManhattan

Diciamo la verità: non ce l’aspettavamo. Nessuno di noi si aspettava che Better Call Saul si sarebbe lasciato presto alle spalle l’etichetta di spin-off di una serie popolarissima, diventando altro. Un altro non solo con una sua dignità, ma in grado di ritagliarsi lentamente un suo posto nella storia dei serial televisivi. E ora che quel bellissimo, inaspettato altro è arrivato alla fine, ora che anche il tredicesimo e ultimo episodio della stagione finale di Better Call Saul ci è scivolato davanti agli occhi, nelle orecchie, ma soprattutto ci è passato nella testa e dritto nel petto, mi sento soddisfatto come poche altre volte mi è successo in presenza di una serie seguita per tanti anni (qui sette, eh, mica niente).

D’ora in avanti [SPOILER] sul finale, occhio.

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“CHIAMAVANO SAUL”

È difficile chiudere davvero col botto. E lo è ancora di più se una serie è molto seguita, perché l’hype è un amico falsissimo e traditore. E invece, nonostante le aspettative si fossero fatte preoccupantemente alte in questa stagione finale, è esattamente quello che è successo con la creatura di Vince Gilligan e Peter Gould, e il suo ammaliante, ipnotico, scaltrissimo, incredibilmente-vestito-male protagonista. Dopo aver inanellato, episodio dopo episodio, una stagione conclusiva semplicemente pazzesca e in crescendo, con delle prove maiuscole dei suoi interpreti (Bob Odenkirk e Rhea Seehorn, ma anche Jonathan Banks, Michael Mando, Patrick Fabian, Tony Dalton e tutti gli altri. Sì, compreso Giancarlo Esposito che fa Giancarlo Esposito), il finale non solo si è tenuto su quel livello, ma ha rilanciato. E si è portato a casa tutto il malloppo.

Ci sono viaggi che si ricordano come molto belli, ma che magari si sono chiusi con qualche nota stonata: è la storia di un lungo elenco di serie TV ultrafamose che magari hanno steccato nel finale, o addirittura nelle ultime stagioni. Pescatene una a scelta, ce ne sono quante ne volete, e almeno per parte dei fan, il discorso vale pure per Breaking Bad.

Ma Better Call Saul no, ha servito a tutti il finale giusto. Nel senso che, anche al di là di quello che si vede nei suoi ultimi minuti – di quel magone che ti sale pensando non solo che Saul Goodman trascorrerà lì dentro il resto dei suoi giorni, e ok, ma soprattutto che non lo rivedremo più – “Chiamavano Saul” (Saul Gone) è davvero un finale perfetto. Quel senso di closure, la chiusura del cerchio che tanti show hanno mancato, sbagliando uscita o piantandosi proprio all’ultimo svincolo, Better Call Saul lo raggiunge con un’eleganza infinita.

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L’INEVITABILE MOMENTO IN CUI LA PRENDO LUNGA PARLANDO DE I SOPRANO

L’autore dell’altra mia serie preferita di sempre, David Chase, disse a proposito del finale de I Soprano che il pubblico aveva adorato un mafioso come Tony Soprano per anni, sperando che sfuggisse alle pallottole dei nemici e alle microspie dell’FBI, e poi all’improvviso desiderava vederlo morire male una volta arrivati al capolinea. È il dilemma morale che si presenta quando fai affezionare gli spettatori a un criminale. E alla fine puoi ucciderlo, perché un conto lo dovrà pur pagare, o costringerlo a darsi alla fuga per sempre. Con Breaking Bad e i suoi due protagonisti, lo stesso Gilligan aveva adottato entrambe le situazioni (con tanto di epilogo superfluo per Jesse, con El Camino).

Ma Saul era diverso. E con lui il dilemma morale era ancora più rognoso.

Da un lato è un personaggio simpatico e quasi sempre adorabile, non ha mai ammazzato direttamente nessuno, occasionalmente ha pure provato a rigare dritto. Dall’altro, come ricorda il diretto interessato in questo finale, è un uomo che ha collaborato a lungo con dei narcotrafficanti, causando indirettamente la morte di varie persone. Un elenco che comprende non solo il povero Howard Hamlin, ma anche il fratello di Jimmy, Chuck. E a Saul non interessa quello che gli dice l’ex collega e consulente legale, cioè che quella lunga confessione ha degli elementi non rilevanti sul piano penale: Saul si sente responsabile anche del suicidio di Chuck McGill, e – finalmente – di tutto il resto.

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BREAKING QUASI BAD

Gli ultimi episodi, quasi tutti dedicati al bianco e nero dell’ultimo segmento temporale, la latitanza del dopo Breaking Bad, ci hanno fatto credere che “Gene Takavic”, manager di quel negozio di dolcetti alla cannella in un centro commerciale del Nebraska, fosse l’evoluzione definitiva dell’uomo un tempo chiamato Jimmy McGill. Un Saul Goodman super-saiyan e paranoico, arrivato a svaligiare un negozio pur di tenere per le palle chi potrebbe smascherarlo. Un criminale che se ne frega se chi sta per far drogare e derubare ha il cancro, e che in quell’attimo in cui tende il cavo del telefono a casa della povera vecchia che ha scoperto la sua identità sembra prossimo al punto di non ritorno: uccidere qualcuno, pur di continuare a farla franca.

“Bene, guardate per quale essere spregevole avete fatto il tifo finora”, sembrano dirti gli autori, giudicandoti.

E invece no.

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TUTTO QUEL CHE RESTA DI JIMMY MCGILL

Quando Jimmy viene messo con le spalle al muro da imputazioni per le quali dovrebbe scontare quasi due secoli di galera, sembra che Saul e la sua parlantina siano ancora in grado di tirarlo fuori, ottenendo un trattamento con i guanti bianchi e una pena ridicola. Ma c’è di mezzo Kim, c’è in ballo la vicenda di una donna che non se l’è sentita di dimenticare quella brutta storia, e questo impedisce a Saul di andare fino in fondo. Anzi, lo porta finalmente a fare i conti con tutto, dicevamo. A vuotare il sacco non solo con una giudice e tutti quei signori eleganti che non credono alle proprie orecchie, ma con se stesso.

Lì, nell’accettazione delle proprie colpe, Saul Goodman muore. Ironicamente, in un mondo che continuerà a chiamarlo così, come dimostrano i compagni di cella in panetteria e il coro intonato dai galeotti sulla strada per la prigione, lui torna ad essere Jimmy. Non Slippin’ Jimmy, l’imbroglione, ma quello che un tempo aveva provato a ottenere la cosa per lui più importante, senza mai riuscirci: la stima del fratello maggiore.

La passerella d’onore concessa a tanti coprotagonisti di questa storia, o ai personaggi di Breaking Bad, è la ciliegina sull’ennesima torta confezionata in questa stagione con un bianco e nero da paura, che si concede, per taglio delle scene e fotografia, finezze da noir d’altri tempi. Personalmente, non mi interessava molto rivedere qui anche Walter White e Jesse Pinkman, per la semplice ragione che Better Call Saul è diventata, per me come per tantissimi, molto più che un semplice spin-off. Uno show con una sua ragion d’essere, anche al di là di tutti i collegamenti narrativi con la serie madre.

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L’ULTIMA SIGARETTA

Per questo, le precedenti apparizioni del signor White e di Jesse non mi hanno fatto impazzire. E non lo avrebbe fatto neanche quest’ultimo flashback, non fosse che, come la chiacchierata con Mike sempre a base di macchina del tempo – il filo conduttore presente anche nel dialogo con Chuck, attraverso il libro di Wells – tutto serve a sottolineare apparentemente il fatto che Jimmy non cambia e non cambierà mai. Ammesso fosse stato possibile viaggiare nel tempo, Mike non sarebbe diventato magari un agente corrotto, ma avremmo avuto comunque Saul il traffichino e quel bastardo di Gene, no?

Ma dopo aver salutato chi si poteva salutare, anche in contumacia – Mike, appunto, e quella povera anima buona di Hank Schrader, attraverso le parole delle sua vedova, l’un tempo cleptomane Marie – Vince Gilligan e Peter Gould hanno in serbo non un’ultima carta, ma di ribaltare l’intero tavolo da gioco. Saul potrebbe cavarsela, ma decide di non farlo, abbandonando la sua hubris.

Alla fine, dunque, Jimmy poteva cambiare eccome.

È ancora vivo, ma trascorrerà dietro quelle sbarre il resto dei suoi giorni: c’è solo tempo di dargli un’ultima occhiata, di fargli condividere – come ai vecchi tempi, quando tutto è iniziato – una sigaretta con Kim. E di salutare uno dei più riusciti, memorabili personaggi che la storia della TV ci abbia mai dato. Grazie di tutto, Jimmy. Anche per aver dato un nome (e un cognome) a tutti i tizi che incontrerò mai nella vita vestiti malissimo come te.

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