9 luglio 1982: oggi fanno quarant’anni esatti dall’uscita negli USA di Tron, una di quelle pellicole riuscite a far sognare un’intera generazione per l’idea attorno a cui erano costruite, prima e forse più che per quanto in effetti raccontavano. Riavvolgiamo il nastro (del datassette). È l’alba degli anni 80, e il 2000, con le sue macchine volanti che sicuramente arriveranno – ce le hanno promesse, no? – è ancora lontano. Sono gli anni della sperimentazione per Disney, ma soprattutto è il periodo in cui un computer basta per far immaginare a noi tutti un mondo diverso, probabilmente migliore, ma in ogni caso pieno di cose fantastiche. I videogiochi, nati nei bar, hanno travolto le abitazioni e le abitudini domestiche di milioni di persone. Un animatore chiamato Steven Lisberger, impallinato per i videogiochi sin dall’arrivo di Pong, ha in testa un’idea. È l’humus insomma perfetto per far germogliare un film “figlio dei computer” ed emblema di quei tempi. Anche se solo una quindicina di minuti di Tron saranno davvero in CGI, e tutto il resto realizzato in modo decisamente più analogico.
Nel 1982 avevo sei anni. Ho coltivato il mito di Tron per tanto tempo, prima di riuscire a vederlo. Per quasi un intero decennio, finché non l’ho recuperato finalmente in VHS, quando buona parte della sua magia era già evaporata, fagocitata da promesse di un futuro digitale molto più tangibile elargite da console e home computer di casa. Ma in quel lasso di tempo, in quei lunghi anni trascorsi tra il suo debutto in sala e la prima volta in cui l’ho visto per intero, bastava il suo nome a portarmi da un’altra parte, in un luogo inesistente in cui sedimentano le proprietà intellettuali destinate a lasciare il segno.
Tron era per me – e in larga parte sarebbe rimasto – questo film dal nome incredibilmente figo che parlava di videogiochi, citato su Topolino in continuazione. Una pellicola che in qualche modo raccontava – e nel farlo sdoganava (la Disney fa un film sui videogiochi, signore e signori) – il nostro mondo, fatto di sale giochi vere e di quelle improvvisate fuori da bar e ristoranti, attraverso la storia di un uomo che finiva all’interno di uno di quei cassoni mangiamonetine lì. Tron erano queste tutine con le luci come poi solo Automan, uno dei suoi tanti figli illegittimi. Era il videogioco in sala, ai tempi, con quel joystick gigantesco ripreso da quello che si vede nel film.
Era avanti, Tron. Talmente avanti che alla sua uscita si produsse in una semifloppata in stile Fosbury (17 milioni di budget, 33 incassati negli USA e in Canada, 50 in totale: per la Disney troppo pochi), il che, insieme a una sorte analoga toccata al precedente The Black Hole – Il buco Nero, convinse la casa di Topolino a metter da parte la sperimentazione nel campo dei live action. Solo nel tempo Tron sarebbe diventato una pellicola di culto, feticcio di una generazione di impallinati per l’informatica, futuri programmatori, videogiocatori.
Jeff Bridges è il programmatore Kevin Flynn. Tornerà a incontrare Tron e il suo mondo, 28 anni dopo, in Tron: Legacy.
Tron nasce come detto da un animatore che ama i videogiochi, Steven Lisberger, nella cui mente balena l’idea di un Alice nel paese delle meraviglie traslato nel mondo dei computer. Il tutto prende il nome di Tron: non dal comando omonimo di debugging in linguaggio Basic, ma più semplicemente perché richiamava l’aggettivo elecTRONic. Lisberger vuole ricavarne un film d’animazione, introdotto e chiuso da delle sequenze dal vivo, e dopo aver ottenuto dei finanziamenti per dar corpo alla sua idea, la propone in giro. Solo Disney alla fine accetta, anche se le perplessità relative all’investimento non sono poche, visto che l’unica esperienza da regista del neanche trentenne Lisberger è stato il film d’animazione per la TV Animalympics.
E per quanto solo una quindicina di minuti circa (su 96) di Tron saranno alla fine realizzati al computer, a gonfiare i costi della produzione fu proprio il fatto che la tecnologia per dar vita a quello che voleva Lisberger non esisteva. I limiti hardware delle macchine adoperate per realizzare quei frame, uno alla volta, oggi fanno sorridere – computer con un massimo di 2 mega di memoria – così come gran parte della resa visiva di Tron, dalle tutine grigie illuminate in backlit animation alle moto di luce del Motolabirinto, alla fine una partita versus a Snake per il Nokia.
Eppure senza Tron non ci sarebbe stata una fetta intera dell’entertainment degli anni a seguire. Senza Tron, senza i suoi protagonisti filmati in bianco e nero e poi addobbati di lucine sci-fi, colorando a mano ogni singolo fotogramma, non ci sarebbero stati decine e decine di cartoni, fumetti e videogiochi incentrati su un tema simile.
Senza quei primi, rudimentali miracoli in CGI utilizzati da Lisberger e i suoi – tanto avanti da non ricevere una nomination all’Oscar, perché secondo l’Academy avevano barato – la storia degli effetti speciali avrebbe seguito forse un altro corso. Senza Tron, tutte le visioni simili del cyberspazio figliate per oltre un decennio non avrebbero avuto un battipista da seguire bello e pronto, senza inventarsi niente. E così via. Ma al di là dei suoi indiscutibili meriti storici, della sua importanza come capofila non particolarmente fortunato e avventuroso di un nuovo modo di fare fantascienza, com’è oggi Tron come film?
Sarebbe impietoso soffermarsi sulla tenerezza che generano oggi alcuni passaggi, o sulla lentezza di tutta la seconda parte del film, perché lì si tirava a indovinare un futuro, si dava un volto e un corpo al timore che la gente comune provava di fronte ai computer, queste macchine del demonio. E lo si faceva utilizzando computer con una potenza di calcolo risibile e mezzi molto analogici come le tutine colorate di cui sopra, dicevamo. Eppure, quarant’anni dopo, c’è qualcosa che ancora colpisce di quell’immaginario frutto dal creativo Syd Mead, con la collaborazione di un artista di lusso come il francese Jean Giraud (alias Moebius).
Le lightcycle del compianto Mead – da lui immaginate in realtà come una fusione completa di mezzo e pilota, soluzione resa impraticabile dalla tecnologia dell’epoca – sono parenti prossime di quanto ideato dal designer statunitense per Blade Runner e Aliens – Scontro Finale. Parte insomma di un grande, indistinto, privilegiato immaginario unico che dagli anni 80 ci portiamo ancora dietro semplicemente perché incapace di invecchiare.
E non ci sono solo le moto. Come in Star Trek e molti altri esempi di fantascienza classica, il contenitore e buona parte dei suoi contenuti sono inevitabilmente invecchiati, ma parte dell’incarto nasconde visioni di un qualcosa che sarebbe diventato realtà solo molti anni dopo. In questo caso, gli schermi touchscreen della Encom, lo sparattutto Space Paranoid e, se vogliamo, il concetto di scanner e stampante 3D.
Al netto del fattore nostalgia, e riconosciuti i limiti che ai tempi ne azzopparono probabilmente gli incassi – la storia, scritta dallo stesso Lisberger, era davvero troppo esile, solo in parte mascherata dal wow factor allora, troppo evidente nella sua fragilità se vista oggi – Tron resta una pellicola spartiacque. Il non-esattamente-messo-a-fuoco, ma comunque fondamentale, primo esempio di una nuova generazione, per una nuova generazione di giovani smanettoni.
Ah, dimenticavo: lo sapevate che in Tron ci sono anche Pac-Man e Topolino, sì?