A pensarci è davvero incredibile che nell’epoca moderna, caratterizzata dalla necessità di essere giovani o quantomeno accessibili alla generazione Z, agli under 25 per quello che riguarda l’industria cinematografica, Thomas Cruise Mapother IV, a 60 anni, mieta un successo così incredibile come quello che ha conosciuto con Top Gun: Maverick. Nessun altro suo film in precedenza aveva incassato qualcosa come un miliardo di dollari e la cosa stupisce ancora di più perché l’evoluzione dei gusti del pubblico, la pandemia, la concorrenza, hanno cambiato tutto quello che pensavamo di sapere riguardo al grande schermo. Oggi, che compie 60 anni, è giusto onorare una delle più grandi star del cinema di tutti i tempi andando oltre il successo, guardando in quali ruoli è riuscito a dare veramente il meglio di sé.
Vi è un prima e un dopo Nato il quattro luglio di Oliver Stone nella carriera di Tom Cruise, che fino a quel momento era giudicato soprattutto una star per il pubblico più giovane, una sorta di divo perfetto per film action, commedie sentimentali e simili.
Il suo straordinario talento e la sua capacità di connettersi profondamente al personaggio, erano già immersi in Rain Man, ma fu con il biopic dedicato a Ron Kovic, reduce del Vietnam e tra i più grandi attivisti della storia americana, che Tom Cruise fece capire veramente di che cosa era capace.
Uno dei più grandi critici di tutti i tempi come Roger Ebert, ricordava come dopo aver visto Nato il quattro luglio, avesse cambiato completamente idea su Tom Cruise, comprendendone presenza scenica, intensità, credibilità e soprattutto capacità di mettersi in gioco in un ruolo complicatissimo. Ancora oggi questo risulta essere il film più potente e più riuscito sul reducismo, ed uno dei più importanti mai fatti sulla generazione che perse sé stessa e la propria identità nell’inferno del sud-est asiatico.
Nato il 4 luglio è un’opera pacifista ma mai paternalistica, mai retorica o scontata. Tom Cruise lasciò letteralmente sgomento il pubblico per la straordinaria capacità di donare la trasformazione di un Ron, ragazzo completamente plagiato dalla propaganda e dal sogno americano, ed il suo brutale risveglio su una sedia a rotelle. Ma fu magistrale anche nel mettere in scena la sua volontà di riscatto, di cambiare le cose, di fare comunque la differenza. Meritatissima nomination all’Oscar per Cruise, che però si trovo di fronte niente meno che Daniel Day-Lewis in Il Mio Piede Sinistro, cioè una delle più grandi interpretazioni in assoluto della settima arte. Ma nonostante questo, Nato il quattro luglio rimane uno dei suoi film più importanti, più belli e profondi di sempre.
Naturalmente è impossibile non includere in questa top anche Eyes Wide Shut, l’ultima fatica di Stanley Kubrick, ancora oggi uno dei film più enigmatici, inquietanti e affascinanti che si ricordino. Fu anche l’ultima volta sul set assieme di Tom Cruise e Nicole Kidman, che nel dare vita ai personaggi immaginati da Arthur Schnitzler nel suo romanzo “Doppio Sogno” seppero però oggettivamente dare mostra di una chimica e una maestria non indifferenti.
Bill Harford, rampante, ricco e belloccio medico annoiato della propria vita sentimentale e dall’alta borghesia newyorkese che frequenta, nelle mani di Tom Cruise diventa una specie di simbolo delle frustrazioni e dei desideri inconfessabili dell’uomo medio, nonché della volontà di rompere ogni regola esperimentare ogni tabù esistente. Lo fa muovendosi in un sottobosco urbano in cui ricerca ossessivamente l’antitesi al suo ambiente di provenienza e i cosiddetti valori ad esso connessi, ma anche per sopravvivere alla delusione circa il suo matrimonio ormai spento. Tom Cruise ha saputo in Eyes Wide Shut donarci uno dei suoi personaggi più umani, più affascinanti e vulnerabili, molto diverso dai tanti avventurieri, agenti segreti, affascinanti donnaioli con cui si è spesso fissato nell’immaginario collettivo. Senza ombra di dubbio il suo lavoro più coraggioso, più estremo e anche più difficile, perché connesso comunque ad un personaggio non particolarmente simpatico o piacevole, che qualsiasi altro attore avrebbe probabilmente reso insopportabile. Ma non lui, che bene o male plasmò un viandante dentro l’inferno della fantasia e della sessualità più torbida e inconfessabile, quasi un novello Dante in visita in un inferno metaforico e conturbante.
Probabilmente nessun personaggio interpretato da Tom Cruise è stato più sgradevole e allo stesso tempo più profondo di Frank T.J. Mackey, uno dei protagonisti del bellissimo Magnolia, terzo film di Paul Thomas Anderson, ancora oggi secondo molti il migliore del grande regista, o se non altro quello più ricco e riuscito.
9 storie, 9 capitoli, tutti connessi nel parlarci di morte, della difficoltà del vivere quotidiano, di desideri e sensi di colpa, di odio e amore, nella Los Angeles di fine millennio. Tom Cruise, in quel momento all’apice del fascino e della sessualità, interpretò Frank T.J. Mackey, guru, oratore e motivatore specializzato nel promettere a uomini insicuri, frustrati sessualmente e sentimentalmente, un futuro da playboy. Narcisista patologico innamorato della propria voce, carismatico, falso, ipocrita e misogino, nelle mani di Tom Cruise assurge a simbolo del maschilismo più totale, è un uomo che ha una visione delle donne terribile e legata esclusivamente all’atto sessuale. Ma grazie alla sceneggiatura di Anderson e soprattutto alla straordinaria sensibilità di Tom Cruise, a poco a poco si comprende che Frank indossa semplicemente una maschera, dietro la quale nascondere il profondissimo dolore legato all’abbandono subito dal padre (Earl Partridge) e soprattutto all’aver dovuto da solo assistere la madre morente. Magnolia è forse il film più sottovalutato nella carriera di Tom Cruise, nonostante rappresenti per certi versi la sua prova attoriale più ardita e originale, perché connessa al concetto di odio come carburante ma anche nemico della vita, fardello da cui liberarsi per non distruggere se stessi. Senza ombra di dubbio una delle sue migliori prove d’attore e uno dei personaggi più importanti, nonché il più attuale soprattutto in quanto portatore di una visione esistenziale egoista e violenta.
Davvero difficile trovare nella straordinaria filmografia di Michael Mann un film che sia altrettanto apprezzato, iconico e riuscito di Collateral, uscito nel 2004 ed in cui Tom Cruise interpretava lo spietato e carismatico Killer professionista Vincent, che assieme all’indifeso tassista Max (Jamie Foxx), seminava di cadaveri una Los Angeles notturna bellissima e disperata.
Tom Cruise ha quasi sempre interpretato eroi o antieroi nella sua carriera, ma quando ha dovuto andare dall’altro lato della barricata come in questo caso, ha sempre affascinato. In Collateral era veramente cattivo, un villain completamente diverso da quelli che avevamo conosciuto fino a quel momento anche nel genere noir o thriller. Vincent è una sorta di camaleonte, un uomo dotato di una penetrazione psicologica, un’astuzia, pericolosità e fascino semplicemente magnetici. Cane randagio del sottobosco criminale, efficiente e con una capacità di improvvisare e di adattarsi alla situazione quasi sovrumana, guida quel povero tassista in un viaggio che è soprattutto quello dell’individuo contro la società, contro se stesso e la cosiddetta “vita normale”.
In un certo senso gli fa anche da maestro, gli insegna la differenza tra sognare di fare qualcosa e farlo sul serio, l’importanza di non avere paura ma soprattutto quanto la vita moderna sia connessa al concetto di solitudine e violenza. Collateral è ancora oggi uno dei film più belli e importanti del XXI secolo soprattutto per l’analisi sociologica di cui si fa carico, ammaliante grazie a loro due, in particolare a un Tom Cruise imprevedibile e tuttologo, una sorta di versione mefistofelica di un James Bond. Senza ombra di dubbio il suo è uno dei Killer più originali e seducenti chi si siano mai visti sul grande schermo. Soprattutto per questo il noir di Mann continua ad affascinare e rimane un punto di riferimento con pochi pari nella filmografia contemporanea, soprattutto per la capacità con cui Tom Cruise assieme a Jamie Foxx, ha saputo mostrarci i due opposti, le due strade che un uomo può scegliere nella società postmoderna e tecnocratica dei nostri giorni.
Ispirato alla vita dell’agente sportivo della NFL Leigh Steinberg, Jerry Maguire è una delle commedie più intelligenti e originali degli anni ‘90, nonché anche una delle più atipiche.
Jerry Maguire è un agente sportivo che in preda ad una crisi morale, decide di mettere al primo posto l’etica invece del denaro e del potere, trovandosi in breve assolutamente isolato, con il solo aspirante asso del football Rod Tidwell dalla sua parte e la fedele segretaria. Non è solo una commedia questo film, ma anche un simbolo di antitesi totale rispetto al culto del successo e della ricchezza che pervade la società americana, in particolare l’ambiente sportivo.
Coadiuvato da un Cuba Gooding Jr. semplicemente sensazionale, Tom Cruise nei panni di quest’uomo disperato, spesso ad un passo del fallimento e incerto sui suoi sentimenti e quale percorso percorrere, offrì senza ombra di dubbio un personaggio interessantissimo perché umano, pieno di difetti e debolezze, ma deciso ad andare avanti e a non mollare mai. A tutti gli effetti, Jerry Maguire come personaggio ancora oggi rappresenta una sorta di negazione del culto yuppie che negli anni ‘80 aveva avuto anche in Tom Cruise uno dei principali profeti cinematografici, soprattutto con il suo “Maverick” Mitchell.
A quasi trent’anni di distanza, Jerry Maguire rappresenta soprattutto l’illusione degli anni ‘90 di un perfetto equilibrio tra progressismo e uguaglianza, tra libertà personale e capitalismo. Ma è soprattutto la storia di un uomo alla ricerca della sua felicità, intesa come capacità di creare un rapporto sentimentale vero ed autentico, di non farsi sconfiggere dal sistema e soprattutto di accettare la verità su se stesso.